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Grotte, monsoni, salvezza: sui ragazzi imprigionati in Thailandia

Una psicologa dell'emergenza spiega i tratti dell'esperienza estrema vissuta dai ragazzi intrappolati nella grotta in Thailandia. Resistenza, resilienza, ma anche paura e speranza

di Maria Teresa Fenoglio

Propongo di pensare a questa coinvolgente, ma non così inconsueta, situazione emergenziale come a un sistema, nel quale convergono diversi protagonisti e fattori.

E’ con quest’ottica che si muovono gli psicologi dell’emergenza, per i quali guadagnare una visione d’insieme e prospettica quando si calano in situazione è il primo e importante compito. Il primo fattore del sistema, quello che ci colpisce in modo più immediato, è la reazione psicologica individuale, cioè i il trauma di questi ragazzi, la loro paura e tutte le emozioni connesse con una esperienza così al limite. Che cosa vuol dire essere intrappolati al buio, non sapere che cosa sarà di noi, se moriremo, se ci salveremo? Il terrore di essere sepolti vivi è così noto e diffuso che nell’800 vittoriano le bare degli inglesi che se lo potevano permettere erano dotate di un campanello, da suonare dall’interno nel caso il morto si “fosse risvegliato” da uno stato catatonico e si fosse ritrovato chiuso in una bara.

Purtroppo questa esperienza di sepolti vivi è tutt’altro che rara, si pensi ai recenti terremoti, o alla tragedia di Rigopiano. Una evenienza che hanno toccato con mano i minatori cileni, estratti dai pozzi. Come aiutare gli scampati a superare questa esperienza che non sarà mai dimenticata e nei mesi o anni successivi a superare il trauma? La gioia planetaria per il ritrovamento in vita dei ragazzi sembra aver liberato anche noi spettatori dall’ansia di morire sepolti. Il senso di sollievo è così pervasivo che sembrano passare in secondo piano considerazioni più realistiche rispetto ad esempio alle condizioni fisiche dei sopravvissuti. Eppure il lungo periodo di fame, le ferite, se pur lievi, subite, l’impossibilità di muovere gli arti in uno spazio ristretto, sono a loro volta fattori di rischio molto gravi per salute psichica. Il corpo offeso, in particolare per un adolescente sportivo, che ha sviluppato una piena confidenza nelle proprie possiblità atletiche, mette seriamente a rischio il sentimento di integrità personale. Per questo motivo gli aiuti primari in emergenza, cibo, tetto e cure mediche, costituiscono le prime azioni teraputiche.

Chi è soccorso non dimenticherà mai il viso, i gesti e le parole del soccorritore. L’essere raggiunti là dove si è consumata la crisi di vulnerabilità del corpo ha lo stesso valore strutturante e salvifico dell’accorrere della madre quando il bambino invoca la sua presenza, terrorizzato dal vuoto della sua assenza ed esposto a morte certa se abbandonato. L’emergenza spesso corrisponde ad una perdita della rete di legami che scopriamo essere alla base della sopravvivenza. Senza questi legami siamo indifesi. Essi ci connettono alla realtà e al senso di continuità nella nostra vita. L’evento traumatico ci separa dai legami, da quelle voci e da quei gesti attraverso i quali riconosciamo chi siamo. Per dei ragazzi la connessione con i famigliari è dunque di vitale importanza. Mai come in questi casi apprezziamo le tecnologie che oggi ci consentono di parlarci a distanza, vedendo al contempo il volto di chi ci parla. Il mantenimento di questa connessione audio e video è a sua volta cruciale perché la psiche mantenga la capacità di funzionare e attraverso le parole scambiate si nutra della sostanza degli affetti. Sapere che qualcuno ti aspetta è ciò che rende tollerabile la solitudine. In emergenza si perde il senso del tempo. Anche se tutto si è svolto in un ambiente conosciuto e alla luce del sole, il tempo sembra fermarsi a un eterno presente. Il trauma ha spezzato la continuità tra passato, presente e futuro, dimensioni che articolano la nostra presenza al mondo.

Ognuno di noi è costruttore, quotidianamente, di una narrazione attraverso la quale si racconta che cosa è accaduto il giorno prima, quali programmi ci aspettano, a chi e a cosa dovremo provvedere nelle ore successive. In questo raccontarci siamo protagonisti di una narrazione in cui siamo stati piccoli, abbiamo vissuto in luoghi vicini e lontani, abbiamo fatto delle scelte importanti, abbiamo avuto crisi e difficoltà. Il protagonista della nostra storia, cioè noi stessi, ritrova quotidianamente, nel narrarsi, una ragione e un senso, spesso una motivazione, ad esistere. Per affrontare l’isolamento forzato occorre che questa narrazione possa continuare. Si pensi alla importanza delle lettere per un carcerato, o per un soldato in trincea. Non solo le missive che si ricevono, ma quelle che si mandano: in questo scambio di narrazioni, in un continuo andata e ritorno di pensieri e informazioni, le persone recluse in situazioni prive di stimoli, pericolose o mortificanti, riescono a mantenere il senso di un sé normale, di un sé “di prima” che continua nell’oggi.

La “normalizzazione” è una parola chiave della psicologia dell’emergenza. Anche in contesti proebitivi, mantenere una routine il più possibile prossima a quella di prima rinsalda le capacità di resilienza. Così, nelle grotte, stabilire una routine di attività, orari precisi, lo scandirsi del tempo in azioni che vanno dal tempo libero alla scuola, dalla lettura alla musica, dall’apprendimento di tecniche di sopravvivenza alle normali ore di lezione, come se la scuola fosse un’isola cui l’insegnante non può approdare a causa del maltempo, sono provvedimenti necessari alla salvezza psichica. Così come sarà importante mantenere contatti con i propri amici e compagni di scuola.

Nel Friuli terremotato, un coraggioso psicologo scolastico, Tito Cancian, si adoperò per mantenere vivi i contatti tra i ragazzi sfollati sulla costa e quelli rimasti nei luoghi terremotati, e lo stesso è stato fatto più recentemente dagli operatori del GUS nelle Marche. Un fattore di salvezza è a sua volta il gruppo. Il fatto che i ragazzi fossero un team, allenato ad affrontare insieme delle sfide, è certamente uno dei fattori che ha protetto i ragazzi. A volte il gruppo viene creato proprio dalle circostanze, dall’esigenza di uscire da una difficoltà. Spesso di quel gruppo non ci si scorderà mai più, e possono crearsi forti legami e amicizie. Per i ragazzi tahilandesi il gruppo c’era già, ma dovrà ristrutturarsi in funzione delle circostanze. Un appoggio e un riconoscimento al gruppo in quanto tale sarà importante. Le prime parole dei soccorritori “siete stati bravi” si imprimerà per sempre nella mente di ciascuno e costituirà motivo di ulteriore legame. Attività di gruppo, discussioni in gruppo, potranno contribuire al benessere di tutti. Così come sarà importante sostenere il loro leader, il giovane couch, che deve portare il peso di aver involontariamente messo a rischio i ragazzi. Avrà certamente bisogno di una attenzione speciale, perché designato dagli eventi a divenire il capro espiatorio. Già se ne ha il sentore: “perché si sono ficcati in quel pasticcio? Chi è stato la causa? Di chi è la colpa se sono lì? “.

Scovare il colpevole serve a governare l’ansia ma ritarda sia l’adozione di misure utili sia la coesione interna dei protagonisti. Le famiglie dovranno avere un contatto costante con i ragazzi. Ma come far sì che le parole scambiate esprimano vicinanza, non eludano la verità delle difficoltà ma nello stesso tempo infondano fiducia ai ragazzi? Come evitare che i normali sensi di colpa di giovani che “hanno fatto una marachella” diventino un masso di granito che si instaura nei loro cuori e comprometta per sempre i rapporti tra ragazzi e famigliari? E’ evidente che questo incontro deve poter godere di un sostegno, un aiuto psicologico che funga da incubatore per una comunicazione che non aggiunga traumi a traumi. Dello scenario sono parte integrante i soccorritori. Essi provengono dalla Thailandia ma giungono anche da diversi paesi del mondo. Molte persone, con esperienze diverse. Senza una governance degli aiuti tutto questo può produrre confusione. Chi ha pratica di interventi nei disastri sa bene che esiste il rischio che si scateni una sorta di guerra tra gruppi di soccorritori, organismi armati di buone intenzioni ma spesso animati dal desiderio di avere un ruolo visibile. Questo non solo e non tanto per questioni di potere o prestigio personali, ma perché la spinta al potere, a guadagnarsi un lembo di terra in quella trincea, è una potente distrazione dalle forti emozioni che la tragedia ispira. Essa rischia di arretrare sullo sfondo, mentre i soccorsi e le loro dinamiche organizzative prendono sempre più campo. Viene il momento in cui le vittime vengono marginalizzate rispetto ai soccorsi, per i quali varranno soprattutto la tecnica e l’organizzazione logistica. Si può osservare un processo di rapida istituzionalizzazione delle vittime, ad esempio nelle tendopoli, dove le vittime rischiano di venir espropriate dei loro territori e della possibilità di decidere per sé. La consultazione dei ragazzi dietro corrette e continue informazioni consentirà loro di mantenere un senso di controllo sulla propria vita e stimolerà la loro capacità di reazione. L’informazione è un nodo cruciale.

Ragazzi di quell’età vogliono sapere, e vogliono essere considerati adulti. Fornire informazioni veritiere, convogliate da una figura autorevole e possibilmente stabile che i ragazzi possono sentire vicina a sé, è importante. Alcune parole vanno spese per il circo mediatico che si scatena sempre attorno a una emergenza. I soggetti coinvolti, che sono i ragazzi, le loro famiglie, ma anche i compagni di scuola, gli insegnanti, i soccorritori tutti, hanno in realtà bisogno di intimità e raccoglimento. Hanno bisogno persino di isolamento e certo di silenzio e calma.

In Tahilandia la cultura buddista e l’abitudine alla meditazione si spera possa funzionare da antidoto alla dispersione emotiva che il continuo bombardamento mediatico può provocare. In sintesi, l’aiuto materiale, medico e tecnico, e il sostegno psicologico, devono procedere insieme. In questo momento in cui il pericolo non è ancora superato, ma a maggior ragione al ritorno, si spera in condizioni di incolumità, dei ragazzi. L’affioramento in superficie dopo una esperienza del genere è descritto come persino più a rischio del permanere in isolamento. I minatori cileni costretti sotto terra per settimane nel 2010 raccomandano di “prepararsi mentalmente al soccorso”.

La psicologa Parsi osserva che i sentimenti che si possono in seguito scatenare, avendo riguadagnato la salvezza,collegati al senso di trionfo di avercela fatta, possono indurre i ragazzi a ritenersi immortali, con la conseguenza di un desiderio coatto a sfidare il destino. Concludo con le raccomandazione dei minatori cileni, che ci indicano quali siano stati per loro i fattori di resilienza: un fattore fattore importante è stato rappresentato dalla preghiera; un secondo, la sicurezza di potersi riunire alle famiglie; quindi la libertà di esprimere i propri sentimenti e di piangere, senza sentirsi deboli per questo; infine il ruolo di un leader, in questo caso il coach, garante della tenuta del gruppo e primo riferimento adulto per i ragazzi. Nel frattempo, speriamo per loro.

L'Autrice è psicologa dell'emergenza


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