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Welfare, per aggregare la domanda serve uno schema frattale

«Unire la domanda genera economie di scala, riduce la frammentazione, crea massa critica. Eppure, dietro molta narrazione ottimistica, rimangono ostacoli importanti». L’analisi di Sergio Pasquinelli, presidente dell’Associazione per la Ricerca Sociale di Milano e vicedirettore del portale Welforum.it

di Sergio Pasquinelli

È un’idea che resiste da tempo: mettersi insieme per avere più forza nel darsi un aiuto. Basti pensare alle società di mutuo soccorso di fine ‘800: coalizzarsi, mettere in comune risorse proprie, per far fronte ai bisogni che ciascuno prima o poi avrebbe potuto avere.

Ma oggi l’aggregazione della domanda ha assunto valenze nuove. Non solo in chiave di autotutela, vedi il florilegio di mutue e assicurazioni integrative, ma anche dal punto di vista di chi produce servizi: unire la domanda genera economie di scala, riduce la frammentazione, crea massa critica. Eppure, dietro molta narrazione ottimistica, rimangono ostacoli importanti.

Grandi volumi fanno rima con servizi prestazionali
L’aggregazione della domanda punta a volumi importanti su cui intervenire con prestazioni precodificate, perché se già definita la prestazione la posso misurare, darle un tempo e un costo. Che sia una visita odontoiatrica, un trasporto, un esame diagnostico, un aiuto domiciliare, ciò che viene offerto rientra in un catalogo, in un piano di intervento, in un valore. È il welfare del ceto abbiente, che sa di cosa ha bisogno, che si può permettere di pagare le prestazioni che conosce, prevede, sceglie. Out of pocket, a carico del proprio bilancio.

Non è, certo, il welfare di chi è in svantaggio, povero, disinformato, di chi ha bisogno di un aiuto personalizzato, diverso da tutti gli altri, variabile. Aggregare la difformità è complicato e costoso. L’anziano solo, non autosufficiente, ha bisogno di un rapporto uno a uno con la sua badante: dentro questo rapporto non ci sono margini per una sovra-struttura organizzativa, per quanto leggera, che intenda fare impresa sulla non autosufficienza.

Lo sanno bene le imprese sociali che hanno provato a promuovere la badante di condominio: figura molto idealizzata ma poco diffusa. In una indagine dell’Università Bocconi su un campione di anziani in Emilia Romagna, solo il 24 per cento si è dichiarato disponibile a condividere una badante con altre famiglie all’interno del proprio condominio o quartiere.

Ci si attira per piccoli gruppi
L’esperienza di molti progetti mostra come il welfare collaborativo porta ad avvicinare persone con caratteristiche a volte anche diverse, ma per piccoli gruppi. Nelle esperienze di co-housing, intese come gruppi di famiglie che vivono in situazioni di prossimità, che condividono spazi e aiuti reciproci, i due terzi dei casi censiti contano meno di 20 alloggi (HousingLab, Cohousing. L’arte di vivere insieme, Altreconomia, 2018).

La prossemica del welfare (italiano) ci porta a sottolineare la distanza breve tra le persone, le diffidenze verso le grandi agenzie di cui non si conoscono i volti e le persone, la vicinanza come valore.

Il progetto #VAI nell’ambito del programma “Welfare in Azione” di Fondazione Cariplo ha mobilitato, a Garbagnate Milanese, micro-progetti di sviluppo di comunità formati da massimo 10 cittadini. Gli esiti, (clicca qui per leggerli) ci parlano di una propensione forte ad attivarsi, tra persone diverse ma con qualcosa, un interesse comune. Non foss’altro perché abitanti nello stesso cortile, nella stessa strada. Se la dimensione piccola è quella vincente, allora la strada per arrivare a una estensione degli interventi, a un’aggregazione del bisogno, è seguire un sentiero decentrato, tutto il contrario della sharing economy come l’abbiamo conosciuta fin qui.

Forse il modo è allora quello di coltivare le aggregazioni di comunità, moltiplicandole, secondo uno schema di tipo frattale: seguendo percorsi che si riproducono su piccola scala ma la cui somma può generare volumi crescenti.

Le piattaforme informano, e poi?
Nella sharing economy va da sé che le piattaforme digitali possono essere un mezzo aggregativo potente. Nel sociale, ne abbiamo censite più di venti. Ed è merso un dato interessante: perché i siti che offrono baby sitter sono più diffusi, e più utilizzati, rispetto a quelli che offrono badanti? La risposta che ci siamo dati è questa: una baby sitter implica una prestazione breve, la si può cambiare facilmente, rappresenta un intervento puntuale e reversibile. Così non è per una badante: un’ assistenza che richiede stabilità, emotivamente marcata.

Le relazioni “lunghe” non viaggiano sulle piattaforme digitali, perché hanno bisogno di fiducia. Nei siti della sharing economy questa si alimenta attraverso il sistema dei feed back. Meccanismo ancora del tutto estraneo, e probabilmente molto inadeguato, nelle piattaforme di welfare sociale. Una fiducia che deve sposarsi con i mezzi a disposizione e i costi richiesti, non solo economici ma di tempo, di conciliazione tra sfere diverse della vita: una fiducia conveniente. Cioè condizionata, legata alla volontà di “non perderci”, di rendere compatibili le proprie aspettative con i propri mezzi.

Così i portali “social” hanno ancora una funzione prevalentemente informativa, e con molta fatica riescono, nel cerchio virtuale del loro spazio, a realizzare transazioni, match domanda/offerta. La maggioranza informa e al più facilita accordi che si compiono altrove.

Il “platform cooperativism” radicato territorialmente – non parlo delle grandi multinazionali del digitale – le piattaforme che aggregano soggetti diversi (spesso cooperative sociali) e che offrono servizi sociali e sociosanitari, hanno bisogno di una governance completamente nuova. Chi rimane sul piano della somma dei soggetti coinvolti, tutti regolarmente presentati con indirizzo, telefono ecc., non può aspettarsi altro che una informazione in più: una vetrina in cui ciascuno continua a rivendicare la sua fetta della torta. Il salto di qualità avviene se ci si riesce a fondere in una entità nuova, capace di parlare con una sola voce, un solo canale. E’ anche qui che si gioca la sfida di un welfare più prossimo.


*Presidente ARS – Associazione per la Ricerca Sociale


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