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La prima resilienza è una comunità coesa

Negli ultimi anni sempre più spesso disastri naturali hanno sconvolto tanti Paesi del mondo. Forse il tema di fondo della resilienza sarebbe quello di studiare una serie di parametri che riguardino le condizioni di vita, le risorse naturali, geologiche, geografiche e la densità abitativa che mettono a rischio la vita dei cittadini, adattandola alle condizioni particolari e specifiche di ogni città

di Anna Detheridge

Negli ultimi anni sempre più spesso incendi, terremoti, frane, alluvioni, tsunami hanno sconvolto tanti Paesi del mondo con il loro triste carico di morti, danni ingenti e costi per le popolazioni. Non sarà un caso se il tema della resilienza è diventata una parola d’ordine sulla bocca di tutti, magica quanto misteriosa, taumaturgica, quasi augurale, adatta a risolvere tutti i mali.

Nel 2013 la Fondazione Rockefeller ha lanciato l’iniziativa 100 Resilient Cities un progetto sperimentale che finanzia un funzionario che lavori a tempo pieno nell’amministrazione di ognuna delle cento città partecipanti al progetto pilota. La sua mission è quella di sollecitare una riflessione sul tema della “resilienza” nei confronti di ogni possibile catastrofe imprevista.

Ma cosa intendiamo realmente con la parola “resilienza”?

Le città coinvolte nel progetto delle 100 città (da Atene a Barcelona, da Chicago a Jakarta, da Londra a Ramallah), devono costruire una “strategia della resilienza” che si applichi ai diversi settori dell’amministrazione e che permetta alla città di reagire con prontezza quando si trova colpita da una catastrofe. I funzionari finanziati dalla Fondazione Rockefeller lavorano in rete a livello globale affrontando problematiche e priorità diverse, favorendo così lo scambio delle informazioni e una ricerca mirata che metta a fuoco molte dinamiche e tematiche diverse.

Lo scorso anno a Los Angeles le emergenze dovute agli incendi e ad altre catastrofi naturali sono state le peggiori della sua storia; Lagos capitale della Nigeria sta subendo un aumento della popolazione ingestibile come anche altre capitali africane; molte metropoli stanno affrontando il problema dell’innalzamento dei mari, tema sintetizzato come “living with water”. L’elenco delle emergenze è infinito.

Nonostante le difficoltà e l’immensità della sfida, Michael Berkowitz presidente di 100 Resilient Cities ha dichiarato di essere ottimista nel promuovere un approccio che metta al centro le metropoli e non gli Stati sovrani, il che rende possibile implementare una serie di soluzioni tattiche sul territorio, favorendo un dialogo costante tra città con problemi simili, bypassando in questo modo problematiche politiche a livello nazionale.

Ma in generale quali sono le azioni da mettere in atto per garantire una capacità generica di reagire? La resilienza e l’equità sociale sono per Berkowitz, fattori interdipendenti. Un tessuto sociale coeso potrà resistere meglio di fronte alle sfide alle comunità. Tuttavia la maggior parte degli abitanti più vulnerabili sono esclusi dalle infrastrutture della resilienza, spesso vivono in zone disagiate lontane da servizi e luoghi pubblici in grado di offrire loro ristoro, riparo o forme di aggregazione sociale. Un esempio? Senza verde urbano durante i mesi più caldi le città diventano roventi. Le isole di calore soprattutto in zone dove prolifera il cemento possono aumentare fino a 10 gradi il microclima.

Per rendere la vita più vivibile a volte possono bastare anche piccoli interventi di mitigazione, con alberature in certi punti, oppure tecnologie costruttive che prevedano tetti riflettenti o pavimenti che rinfrescano.

Forse il tema di fondo della resilienza sarebbe quello di studiare una serie di parametri che riguardino le condizioni di vita, le risorse naturali, geologiche, geografiche, la densità abitativa ecc. che mettono a rischio la vita dei cittadini, adattandola alle condizioni particolari e specifiche di ogni città.


Dalla rubrica “L'Altra Città” del numero del magazine di aprile


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