Cooperazione & Relazioni internazionali

Rohingya, un anno dopo

È iniziato il 25 agosto la fuga della popolazione a causa delle violenze e di una vera e propria persecuzione in Myanmar. Oltre 700mila persone sono fuggite in Bangladesh. Le MOAS Aid Station sono per quasi un milione di rifugiati delle vere e proprie oasi dove i team medici curano le ferite fisiche, ma anche i traumi psicologici. Nella storia di Nur Fatema l'esodo di un popolo perseguitato

di Regina Catrambone

Quando Nur Fatema, 20 anni, è arrivata alla MOAS Aid Station di Shamlapur, Bangladesh, bastava guardarla negli occhi per coglierne la tristezza. Interamente velata, solo gli occhi rimanevano scoperti ed esprimevano enorme preoccupazione per la salute della figlia. La piccola Sajied era nata otto mesi prima nel campo profughi di Shamlapur, dopo che la sua famiglia era fuggita da violenze e persecuzioni perpetrate da militari e civili birmani. In seguito al suo arrivo presso la MOAS Aid Station, il nostro team medico ha dato il benvenuto a Fatema e Sajied cui è stato diagnosticato l’asma bronchiale, una malattia infiammatoria cronica che colpisce le vie aeree ed è particolarmente pericolosa nei bambini. Le cause principali sono legate a scarsa igiene, esposizione o inalazioni di fumi, stress, cambiamenti di clima o temperature. Se non viene diagnosticata o curata adeguatamente, nel lungo periodo può condurre a difficoltà respiratorie e limitazioni fisiche.

Nella maggior parte delle abitazioni di fortuna dei Rohingya, solitamente si cucina all’intero aumentando così le chance di disturbi respiratori. Inoltre, la stagione monsonica attualmente in corso con piogge torrenziali e frane o allagamenti non fa che peggiorare la situazione. Nonostante sia stato accertato l’altissimo rischio di malattie a vettore idrico e trasmissibili, il settore sanitario è quello che ha ricevuto meno fondi nel quadro del Joint Response Plan 2018.
Ad oggi è stato raccolto solo il 18% dei fondi richiesti, limitando enormemente le possibilità di intervento. A ciò si aggiunge il fatto che ci siano solo 33 strutture sanitarie -fondamentali per evitare il diffondersi di epidemie- per 919.000 rifugiati Rohingya e per le comunità locali che li ospitano. A causa di disastri provocati da condizioni meteo estreme, alcune strutture sanitarie hanno dovuto sospendere la fornitura dei propri servizi o i pazienti non sono stati in grado di accedervi. Per questo motivo MOAS, non solo ha svolto training specifici per aumentare la capacità di rispondere a monsoni e catastrofi naturali, ma ha anche creato un punto di primo soccorso temporaneo per aiutare chi non riusciva a raggiungere la Aid Station.

I centri MOAS sono luoghi in cui chiunque viene accolto calorosamente e trattato con assoluto rispetto dopo aver vissuto esperienze terribili: i bambini possono giocare e bere acqua potabile, gli adulti ricevono istruzioni su come lavarsi adeguatamente le mani e hanno accesso ai servizi igienici. Sono delle oasi di ascolto dentro cui i team medici MOAS non si occupano solo di curare le ferite fisiche, ma anche i traumi psicologici. Dopo le cure, solitamente i pazienti raccontano le proprie storie, confermando gli orrori che siamo abituati a leggere su magazine e giornali.

I report o le notizie che leggiamo sulla stampa possono sembrarci distanti. Speriamo che i dati e le prove esagerino in qualche modo l’accaduto, ma è difficile negare le testimonianze dirette. La storia di Nur Fatema descrive nel dettaglio ciò che è stato etichettato come “genocidio”, “esempio da manuale di pulizia etnica” e “crimini contro l’umanità”. Il suo racconto è la prova di un’ondata di violenze sistematiche e lungamente pianificate che dallo scorso 25 agosto hanno costretto oltre 700.000 Rohingya a oltrepassare la frontiera col Bangledesh. L’anno scorso, Nur Fatema ha assistito al massacro di molte vittime innocenti e visto interi villaggi rasi al suolo dalle fiamme nei pressi della sua casa a Gorakali, distretto di Maungdaw. In quel periodo, era al sesto mese di gravidanza e ha affrontato molte sfide in viaggio verso il Bangladesh. Ci sono voluti sei giorni per mettersi in salvo, quattro trascorsi a nascondersi su una collina e due di cammino nel fango.

Il 5 settembre, Nur Fatema è arrivata in Bangladesh con la sua famiglia, subito dopo l’arrivo della Phoenix (la nave MOAS) partita dal Mediterraneo. MOAS era appena arrivata per portare speranza ai Rohingya perseguitati e, per pura coincidenza, una sua futura paziente era in procinto di entrare in Bangladesh dopo un viaggio molto pericoloso. La donna racconta anche quanto sia stato difficile partorire e ricevere adeguata assistenza sanitaria.

Violenze, abusi, uccisioni e distruzione non sono favole, ma vergognosi crimini di cui vanno puniti i responsabili. MOAS e la sua organizzazione sorella – Xchange – sostengono attivamente la racconta di dati e prove per comprendere meglio la tragedia dei Rohingya in Myanmar e in Bangladesh. Vagliamo regolarmente le loro condizioni di vita, chiediamo quali siano i loro desideri per il futuro e ci informiamo sulla loro opinione in merito al controverso tema dei rimpatri. In base all’esperienza maturata salvando vite umane in mare, sappiamo quanto sia importante parlare alle persone, invece di parlare delle persone. Pertanto, alla luce dei preoccupanti report sull’argomento e delle testimonianze sulle violenze vissute da bambini, donne e uomini Rohingya, la nostra missione in sud-est asiatico è fondamentale non solo perché garantisce cure mediche essenziali, ma anche perché possiamo portare conforto ad altri esseri umani, di cui ascoltiamo desideri e paure.

Nel primo anniversario dell’esodo Rohingya del 2017, chiediamo ancora una volta che vengano raccolti i fondi necessari a continuare a salvare vite. Dopo l’emergenza iniziale e con la stagione monsonica che speriamo termini presto, è arrivato il tempo della ricostruzione. È il momento di dare un futuro migliore ai Rohingya e alle comunità locali bengalesi. È giunto il momento di costruire una vita migliore per la piccola Saijed e di aiutare i suoi genitori a dimenticare gli orrori vissuti.

Abbiamo mantenuto accesa la speranza per un anno grazie al vostro aiuto e al vostro supporto. Quest’anno dobbiamo fare ancora di più.


*L'autrice è Co-Fondatrice e Direttrice MOAS


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