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#Processoalnonprofit, un’esperienza da cui ripartire

Nino Sergi, presidente onorario di Intersos, ha partecipato alle udienze di Milano e Roma. «È stato un esperimento interessante. Ci ha fatto oggettivizzare in pubblico sia i nostri pregi che i nostri difetti. Ed è stata una sorpresa»

di Lorenzo Maria Alvaro

Il percorso dell'evento organizzato da Ferpi e Associazione PerLaRe ha visto la sua conclusione a Roma con la terza e ultima udienza che si è tenuta presso l’aula magna della Lumsa. Per fare un bilancio dell'esperienza abbiamo parlato con Nino Sergi, presidente onorario di Intersos, che ha partecipato a due udienze.


Come ha vissuto questa esperienza inedita del gioco retorico sul non profit?
La bontà di questo approccio che ci è stato proposto è che aiuta, attraverso questo gioco retorico, tutti noi a vedere le positività del nostro mondo ed esserne ancora più convinti ma al tempo stesso ci fa tentare di capire limiti, difficoltà ed errori fatto. È qualcosa che certamente facciamo normalmente ma mai in pubblico. Farlo davanti a una platea, ad alta voce fa riflettere. Dire certe cose pubblicamente fa stare attenti alle parole che si usano e alla reazione del pubblico presente. Una riflessione sul nostro agire che aiuta a capire meglio adottando un atteggiamento di sincerità

Che criticità del Terzo settore sono emerse da questo processo?
Una delle cose che sono state evidenziate è che il nostro mondo è certamente generoso ma spesso è incentrato su sé stesso, talvolta incapace di fare reti aperte e coordinate e altre sembra che la priorità nel comunicare non sia l'obbiettivo del proprio agire ma il veicolare il proprio marchio. Una delle cose che sono state denunciate è che abbiamo creato o contribuito a creare competizione. A diventare l'uno il competitor dell'altro. Che, nell'ambito sociale, non ha molto senso. È giusto competere sulla qualità dei progetti. Ma non è bella la competizione tra organizzazioni. Abbiamo evidenziato che c'è stata talvolta troppa subalternità alla politica per convenienza. Abbiamo accettato spesso imposizioni ingiuste senza reagire in modo severo. Il fatto di avere nel tempo proceduto affiancando la politica ha fatto si che quando le istituzioni sono cambiate e sono cambiati i riferimenti ci siamo trovati in difficoltà. Il Terzo settore dovrebbe rimanere pienamente indipendente rispetto alla politica, facendo da interlocutore alla pari e da pungolo.

Lei ha detto che il processo vi ha fatto “vedere le positività del nostro mondo ed esserne ancora più convinti”. Per uno di lungo corso come lei è qualcosa sorprendente…
Noi del sociale spesso facciamo le cose, ma quasi mai ci soffermiamo a riflettere e a sottolineare quello che abbiamo fatto. Ci sono un pudore e un'umiltà intrinsechi al nostro mondo per cui raramente succede di auto elogiarsi. Dover dire ad alta voce gli obiettivi raggiunti, enumerare pubblicamente le tante cose fatte, è utile e salutare. Perché fa, anche qui, oggettivizzare qualcosa che già sapevamo ma che era rimasto sottointeso, mai esplicitato. Forse dovremmo abituarci a dire che il Terzo settore ha fatto e sta facendo cose grandi.

L'obbiettivo del processo è andare a costruire una piattaforma che serva per cambiare il modo di comunicare del Non profit. Ancora la piattaforma non esiste. Ma come vede l'idea di avere uno strumento come questo?
Tutto ciò che degli esperti di comunicazione che conoscono il nostro mondo ci possono consigliare per migliorarci è benvenuto. Noi siamo esperi del fare ma il comunicare lo stiamo imparando negli anni anche grazie a Vita.

Anche perché la comunicazione nel contesto odierno la comunicazione è fondamentale…
Basta pensare al caso delle ong. Certamente è così, anche se la contro comunicazione rispetto ad un mainstream così distruttivo non è semplice. Potremo avere una chance se continueremo a raccontare quello che facciamo. E poi c'è una cosa che bisogna sottolineare…

Quale?
Da noi si pretende che siamo ottimi realizzatori di cooperazione, ottimi interlocutori politici, ottimi comunicatori, ottimi amministratori, ottimi imprenditori. È tanto. La nostra dimensione è principalmente quella del fare. Sul resto cerchiamo di fare il meglio possibile.

Un'aspettativa nei confronti del Terzo settore che però testimonia di una stima…
Certo, è il motivo per cui, quando sono successo casi scandalosi di singole persone che hanno sbagliato, la reazione pubblica è stata dovuta al fatto che non ci si aspetta che nel nostro mondo succedano cose del genere. Il Terzo settore ha un immagine positiva che, quando viene macchiata, sconcerta.

Per concludere, lei prima parlava del rapporto con la politica. Possiamo dire che forse la più grande dote che il non profit può portare è la frequentazione e la conoscenza della complessità?
Assolutamente. Basti pensare al caso romano di Desireé. La ragazza uccisa nel quartiere San Lorenzo. Un decesso che arriva da una grande complessità. C'è il tema del degrado del quartiere, della difficoltà famigliare, della devianza giovanile, della droga, del tema dell'abbandono urbano, della sicurezza, del welfare. Certamente oggi la politica ci ha sempre più abituati a risposte di una semplicità disarmante. Una situazione come quella della periferia romana non si può risolvere con le ruspe. Ma non è un problema esclusivamente di Salvini. È altrettanto vero che è dovere del Terzo settore avere a che fare con la complessità, altrimenti non rispondiamo in modo efficace ai bisogni.


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