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Lo straniero: ospite o nemico?

Il tema dell’abitare e dell’ospitare, dell’accogliere e del condividere non può essere disgiunto da quello dell'appartenere. Una questione cruciale in cui si condensano molte difficoltà del nostro tempo. Anche quelle di cogliere una complessità troppo spesso, da tutte le parti in causa, banalizzata

di Marco Dotti

Nel primo volume del suo fondamentale Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, dedicato a “economia, parentela, società”, Emile Benveniste parla di «quattro cerchi dell’appartenenza sociale». È qui che il linguista, nato ad Aleppo nel 1902, a lungo direttore dell’Ecole Pratique e dal 1937 professore al Collège de France, offre le indicazioni più preziose per comprendere il tema dell’abitare e dell’ospitare, dell’accogliere e del condividere. Ma anche dell’appartenere.

Chi ospita chi?

Partiamo dall’ospite. Chi è l’ospite? Mai come in questo caso, l’etimologia ci aiuta a risolvere un’ambivalenza che nasconde infinite insidie e apre il raggio dei significati a un’imponente rete di suggestioni, rimandi, concetti, simboli.

Ospite è tanto la persona che accoglie nella propria casa, quanto la persona che è accolta in casa d’altri. Il latino hospıte (nomin. hospes) è infatti «colui che ospita» e «colui che è ospitato». Hospes ha un’origine indoeuropea che viene fatta risalire a ghos(ti)–potis, «signore dello straniero», cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da ghostis, ossia straniero, e potis, signore e corrispondente all’antico slavo gospodı, padrone, signore, da cui, con lo stesso significato, deriva il russo gospodin.

Potere, casa, accoglienza, amicizia, legame. Ma anche guerra, inimicizia, nemico. Approfondendo i termini comuni al vocabolario preistorico delle lingue dell’Europa, infatti, le parole mostrano la complessità delle cose. Ecco perché la riflessione etimologica su “ospite” riveste per noi interesse tutt’altro che ozioso. Ricorda Benveniste che «hostis del latino corrisponde al gasts del gotico e al gostı dell’antico slavo, che presenta inoltre gos-podı “signore”, formato come hospes. Ma il senso del gotico gasts e dell’antico slavo gosti è “ospite”, quello del latino hostis è “nemico”. Per spiegare il rapporto tra “ospite” e “nemico”, si ammette di solito che l’uno e l’altro derivino dal senso di “straniero” che è ancora attestato in latino; da cui “straniero favorevole -> ospite” e “straniero ostile -> nemico”».

Alla radice dell’ospitalità c’è dunque il rapporto con lo straniero. Chi ci è nemico, oggi? Chi ci è amico? Questo è un punto.

Il doppio patto: equità con l'ospite

Partiti dall’ospite, siamo arrivati allo straniero. Chi è straniero e, soprattutto, quale straniero e a quali condizioni diventa per noi ostile (hostis)? Benveniste ricorda che il termine hostis ricorre nella Legge delle XII tavole, matrice dell’arcaico diritto romano, come “straniero”. Da straniero a nemico il passo sembra breve, eppure non lo è.

Secondo una testimonianza di Festo risalente al II secolo d. C., al termine hostis veniva dato significato di «colui che ha gli stessi diritti del popolo romano». Pompeo Festo ricorda che, in origine, il verbo hostire significava anche aequare. Ospitalità ed equità, ospitalità e reciprocità, giustizia dunque.

Non a caso è qui che ritroviamo anche un’antica parola, hostia, di cui ben conosciamo significato e importanza. In origine, dunque, l’ospite, anche nel senso di hostis, non era lo straniero ostile, né il nemico, ma lo straniero al quale si riconoscono diritti pari a quelli dei cittadini. Ed è proprio nel vortice di questa complessa vicenda storico–concettuale che nascono il moderno concetto di ospitalità e quello, più tardo, di ostilità, oltre che la polisemia sconcertante del termine ospite. In questa faglia tra lingua e radici, si apre la grande questione dell’altro che viene. Chi è l’altro che viene (alla casa)? Ospite, nemico?

I quattro cerchi e il nome della casa

Veniamo alla casa e all’abitare. Abbandonate altre questioni storico–concettuali, soffermiamoci, per un istante, su Emile Benveniste.

Benveniste ricorda che l’antico iranico ha conservato quattro termini che designano quattro divisioni sociali che, dalla più piccola alla più estesa, si allargano fino a inglobare l’intera comunità, costituendola. Sono: la famiglia, il clan, la tribù e il paese.

È proprio qui che si gioca un’altra partita, fondamentale per noi. E si gioca attorno alla radice indoeuropea dem, in iranico antico dam, da cui deriva il latino domus. È sulla “casa”, in sostanza, che si gioca l’intera struttura del sociale, oggi. Sulla casa come entità sociale che designa frontiere, inclusioni, esclusioni e le forme di quell’abitare compartecipe che ci fa tanto discutere. Se a casa fosse unicamente una costruzione materiale, non ci direbbe molto e ancor meno ci sarebbe da dire. Ma la casa è una costruzione sociale. La sua pietra angolare. Ecco allora che l’aggettivo domesticus qualifica ciò che appartiene alla casa e si oppone a ciò che le è estraneo, ma senza alcun rapporto con la forma materiale dell’edificio. Domestico è ciò che ci è famigliare, ciò che possiamo ospitare, ciò che possiamo abitare.

Ospitalità: una virtù interstiziale

«L’uomo esiste in quanto abita», insegnava il filosofo tedesco Martin Heidegger. Ma non basta abitare la casa. Bisogna, spiegava Emmanuel Lévinas, abitare l’irriducibile alterità dell’altro e farsi interrogare. L’altro è ciò che sta sulla soglia, l’ospite inquietante (non a caso nel 1919, Sigmund Freud parlerà di Das Unheimliche, tradotto da Cesare Musatti come “perturbante”, ma dove l’aggettivo tedesco ha un chiaro rimando a «heimelich, heimelig “che appartiene alla casa”, non straniero, familiare, domestico, dato e intimo, che rammenta il focolare»).

Il perturbante che mette in discussione il nostro abitare e, se diamo credito a Heidegger («l’uomo esiste in quanto abita»), la struttura portante del nostro essere. Eppure, per evitare di concepire la casa come un rinserramento, quest’altro deve farci giungere la propria voce proprio dalla soglia, là dove la polisemia, l’ambivalenza, ci interrogano aprendo ciò che altrimenti sarebbe reclusione.

L’altro è ciò che ci abita, quando abitiamo. Per questo è Das Unheimliche, perturbante, e al contempo simbolo di una condizione di passaggio. L'ospite agita le soglie, ci costringe ad attraversarle.

Di che cosa è simbolo, l'ospitalità?

Il sostantivo “simbolo”, dal greco symbolon, identificava d’altronde il segno di riconoscimento formato dall’unione di due parti di un oggetto in precedenza spezzate. Il simbolo (latino symbolum), anche nella sua accezione verbale symballo, “metto insieme”, dal verbo symballein, nel senso di “legame”, “accordo”, “patto”, “paragone”, rimanda fortemente alla questione dell’ospitalità.

Scriveva a tal proposito, nel XIX secolo, Friedrich Creuzer: «Una tradizione antichissima, considerata sacra anche in Grecia, consisteva nello spezzare una tavoletta (tessera hospitalis) e nel conservare le due unità separate come pegno e segno di un diritto di ospitalità concluso. Quel frammento della tavola spezzata (tessera) veniva chiamato proprio simbolo (symbolon). La parola non si arrestò a quel tipo di accordo e abbracciò tutte le relazioni che si ratificavano attraverso un segno visibile».

Ecco il cuore della sfida che l’abitare, l’ospitare, l’accogliere e persino il respingere ci presentano.

Sapremo riunire le tessere e riconoscere il giusto ospite senza cadere nella tentazione del rancore o della banalità?


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