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Ivan Illich per dissipare l’illusione del potere

Nel mio personale pellegrinaggio, coinvolgo la filosofia come ancilla: da un lato per resistere al – come chiamarlo? – riduzionismo algoritmico, dall’altro per dissipare l’illusione che il potere o l’organizzazione possano dar forza alla pratica della carità.Ivan Illich

di Pietro Piro

Un mondo a misura d'uomo

Ci sono volti che non posso dimenticare. Quello di Ivan Illich così sottile, con occhi luminosissimi e deturpato da un tumore – ancora più devastante perché colpiva un volto bellissimo – ritorna continuamente a farsi presente. "Maestro di carta" per me è stato "maestro in carne e ossa" per generazioni di amici che hanno trovato in lui oltre a uno spirito critico indomito e coltissimo anche un amico sincero, fedele, gioioso. Torno in questi giorni a ragionare sul suo insegnamento a partire da due volumi che ho ricevuto in dono.

Il primo è di Paolo Calabrò, Ivan Illich. Il mondo a misura d'uomo,(Pazzini, Villa Verucchio, RN. 2018). Calabrò, che ha anche dedicato importanti contributi a pensatori come Maurice Bellet e Raimon Panikkar, ci fornisce una prima introduzione a Illich che però è in grado di suscitare interesse ad un ulteriore approfondimento (e in questo senso il libro è riuscito). Il libro è impreziosito da una conversazione di Illich con Achille Rossi sulle contraddizioni della modernità e da un saggio di Stefano Santasila (filosofo italiano molto esperto di filosofia iberoamericana e che oggi insegna presso l'Universidad Autónoma de San Luis Potosí in Messico) sulle attività del Centro Intercultural de Documentación (CIDOC) di Cuernavaca.

Per Calabrò Illich è stato: "interprete del proprio tempo fino a lanciare un messaggio in grado di raggiungere le generazioni successive" (p.5). "Con le sue analisi puntuali Illich mostra, a suon di statistiche, calcoli e bibliografie sterminate, che ogni miglioramento generato dalle istituzioni – oltre una certa soglia di funzionamento, di diffusione, di produzione – non è mai tale per tutti (non sarebbe possibile), ma solo per una minoranza ristretta, e che il bilancio complessivo, comprendente tanto i miglioramenti per i pochi quanto i peggioramenti per i più, è sempre nettamente negativo (p. 8). In questa fase di modernità rischiosamente liquida (cercando di far convergere posizioni come quella di Ulrich Beck e quella di Zygmunt Bauman) una riflessione critica sull'idea di progresso e di "sviluppo" è quanto mai urgente e necessaria. Manca, a mio avviso, nel nostro Paese, una "politica della tecnica" che sia in grado di pensare il progresso non in termini puramente quantitativi o produttivi quanto piuttosto, di sviluppo integrale della persona come soggetto di autonomia.

Illich è stato capace di pensare criticamente l'evidente, il già dato, e sottoporlo a una decostruzione che mira all'essenziale. Scrive Calabrò: "Illich invita a prendere posizione in maniera critica, autonoma, per chiedersi: veramente certe cose possono perdere la loro utilità fino a diventare perniciose, oltre una certa soglia quantitativa? Veramente certe istituzioni possono, alla lunga, assumere finalità contrarie a quelle che ne hanno ispirato la fondazione, generando da ultimo più danni che vantaggi? (p. 9) L' obiettivo non è la provocazione, bensì la restituzione di una prospettiva inconsueta su ciò che è diventato talmente consueto da averne smarrito l’evidenza problematica (p. 13). Illich eredita da uno dei suoi punti di riferimento, Jacques Ellul, l'arte della "critica dei luoghi comuni" o per citare un autore molto più distante nel tempo – ma non nello spirito – "le menzogne convenzionali della nostra civiltà".

Quando tutto è diventato "normale" è difficilissimo ragionare sulle possibilità offerte da prospettive diverse, minoritarie, periferiche. Sanità, mondo delle professioni, tecnologie, trasporti, per Illich, tutto questo può e deve essere messo in discussione perché, aldilà delle apparenze, si aprono scenari discriminatori e immiserenti che favoriscono ristrette élite e mortificano le capacità delle persone di pensarsi come soggetti di autonomia.

Illich non ha mai smesso di pensare l'alternativa al mondo che si stava costruendo sotto i suoi occhi. Scrive Calabrò a proposito: "Illich immagina una società più giusta, anche se non si fa alcuna illusione circa una giustizia perfetta, nella quale le risorse – in termini sia materiali sia energetici, sia ancora di possibilità – siano più equamente distribuite tra gli uomini, e dove ognuno abbia alla propria portata gli strumenti di cui ha bisogno nel suo quotidiano operare. A tal proposito propone il termine “convivialità”, […] Illich spiega che l’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto, e che la convivialità si trova agli antipodi della produttività industriale. Il mondo conviviale che immagina è un luogo in cui ciascuno ha a disposizione lo spazio per esprimere e realizzare se stesso, e la possibilità di dare il proprio contributo al mondo, a misura della propria personale ispirazione […] Come dire che la libertà dell’uomo e la giustizia tra gli uomini vengono al primo posto e che è a partire da esse che si dovrebbe progettare una società nella quale la pace sia un ideale regolativo e un obiettivo concreto, anziché una velleità, come nella nostra società occidentale odierna, dove si sbandierano la pace e il rifiuto della guerra a chiacchiere. Nei fatti si pratica allegramente, in ogni istante e in ogni aspetto della vita, la competizione, quel «contrasto ostile degli interessi, la lotta, la guerra come fondamento dell’organizzazione sociale» (Karl Marx). (pp. 67-69).

Cooperazione o competizione? Alienazione o realizzazione? Dipendenza o autonomia? Rileggere Illich serve anche a riproporre queste categorie con rinnovato vigore. Il tutto, intrecciando alla riflessione vita e sentimenti, comunità e comunione, in quella relazione fondamentale tra vita e opere che in Illich è centrale perché, come conclude Calabrò è: "innegabile che la sua vita e il suo pensiero si siano strettamente intrecciati" (p. 82).

In cammino sullo spartiacque

Il secondo volume curato da Adalberto Arrigoni, Emmanuele Morandi, Riccardo Prandini, In cammino sullo spartiacque. Scritti su Ivan Illich (Mimesis, Milano-Udine 2018) è una raccolta di saggi su Illich che contiene anche un suo testo mai tradotto in italiano: Filosofia…Tecnologia…Amicizia. Un volume complesso, pieno di stimoli e riflessioni approfondite sul pensiero di Illich.

Carl Mitcham cerca di rinnovare la riflessione critica sul tema della produzione e dell’uso dell’energia, seguendo la prospettiva inizialmente elaborata da Ivan Illich nel suo breve lavoro Energia ed Equità. Viene presentata una distinzione tra un Tipo I e Tipo II di etiche dell’energia. Il Tipo I assume come assodato il bisogno umano di accrescere continuamente la produzione e l’uso di energia, e limita la riflessione critica all’ambito dei mezzi: ad esempio, ci si interroga se la produzione di energia è guidata da principi di giustizia sociale o se è ambientalmente sostenibile. Il Tipo II mette in questione la richiesta stessa di energia in quanto bisogno basilare dell’uomo e cerca, invece, di identificare, limiti eticamente significativi alla sua produzione ed uso. Questo lavoro cerca inoltre di collocare l’approccio illichiano di Tipo II in una prospettiva più storico-filosofica, specialmente riguardo al concetto di energy slave e al suo relativo presunto valore in vista del progresso dell’umanità, così come studiato e spiegato dall’ingegnere termodinamico A.R. Ubbelohde e dall’antropologo Leslie White. Infine, l’analisi di Illich viene messa in relazione alle riflessioni di Vaclav Smil e Serge Latouche. Giovanna Morelli prende in esame l’intero arco della riflessione pubblica di Ivan Illich. Sono individuate tre fasi fondamentali in corrispondenza dei decenni ‘70, ‘80, ‘90.

Attraverso questo percorso si ricostruisce un’ antropologia della libertà radicata nella concretezza dell’ incarnazione e si assume l’incarnazione a cifra tematica del pensiero illichiano. In tale prospettiva la self-consciousness coniuga il cogito all’aisthêsis; la sovranità dell’esperienza personale si fonda nel vissuto inalienabile della carnalità (fleshiness). Si sostiene inoltre che questa antropologia trova il suo complemento nella Cristologia illichiana, e la orienta alla piena integrazione della fleshiness nel mitologema dell’ Incarnazione. L’incorporazione individuale del divino elegge la concreta self-consciousness a nuova e dirompente dimensione dello spirito. È questo il quadro di senso in cui collocare e sviluppare il paradosso o mysterium storiografico dell’esistenzialismo illichiano e della sua filosofia della tecnica.

Un moto iniziale di alienazione segna la filiazione spirituale del Sé e la sua distinzione dalla Creazione e dalla tradizione. Ciò traccia una via bifronte, l’antinomia cristiana dell’ individuo occidentale, Cristo e Anticristo: con-creatore e de-creatore, soggetto di sempre nuova virtus umana e suicida del suo patrimonio di umanità. Robert J. Barnet medico che ha conosciuto personalmente Ivan Illich, tratteggia un intenso ritratto dell’uomo Illich, cercando di ripercorrerne il messaggio nel suo complesso. Uomo di profonda fede, che ha continuamente posto in discussione le principali convenzioni dell’attuale società, lo sviluppo della Chiesa, la scolarizzazione e la medicina, Illich, soprattutto in Nemesi Medica, ha approfondito quest’ultimo aspetto, aprendo nuovi e fecondi squarci di lucidità sui fenomeni di medicalizzazione, iatrogenesi, sofferenza, vita e morte, nonchè sul rapporto tra convivialità e tecnologia. Il lavoro si conclude con un appello a coltivare l’arte del vivere, del soffrire e del morire.

Il contributo di Emanuele Morandi vuole mettere in luce come l’appartenenza di lllich ad una autocomprensione del mondo storico-sociale di stampo cristiano, nella misura in cui viene accettata per ciò che essa ci dice e denuncia, non può non caricarsi di un segno profondamente negativo proprio in rapporto al cosmo culturale cristiano e al tipo di autocomprensione che quel mondo ha di se stesso. Insomma è evidente la totale neutralizzazione della rivelazione cristiana nel momento in cui si attivano processi di disincarnazione dell’uomo. L’ incontro tra l’uomo e Dio nella carne del Cristo in quella prospettiva non è più possibile. Ma al di fuori di quell’autocomprensione come pensare la disincarnazione dell’umano, una volta accettata la lettura illichiana? Per Morandi: "Non è tanto in gioco l’ingiustizia che chiamiamo ipocritamente sociale – l’ingiustizia è sempre un atto che si consuma in una volontà malvagia che è in grado di realizzarsi a danno degli altri. Illich vuole che soffermiamo la nostra attenzione sulla quella perdita di autonomia, cioè di sussistenza, che travolge, tra l’altro, non solo i poveri. La sussistenza indica in Illich una libertà di natura carnale, cioè la capacità di vivere senza denaro, esercitando semplicemente della abilità che sono connesse alla nostra natura corporea. Una libertà che è alla portata della nostra carne, come alla portata della nostra carne è quella possibilità di scegliere il mio prossimo (p. 151).

"Trasformando l’amore in dovere (e non viceversa), il dovere in diritti, e i diritti in leggi, un orribile pendant di rivendicazione e indifferenza prende il posto della carità nel momento stesso in cui “qualcuno” si decida per essa. Illich chiama questo male orribile, citando a testimone la Lettera paolina ai Tessalonicesi, Mysterium iniquitatis, l’Anticristo: è un mistero «perché può essere compreso solo attraverso la rivelazione di Dio in Cristo – bisogna riconoscerlo». Nonostante ciò, Illich pensa che questo male misterioso che è entrato nel mondo con l’Incarnazione possa «essere sottoposto all’indagine storica e che, per questo, non ci sia bisogno né di fede né di credo» (p. 141).

Nel mio personale pellegrinaggio, coinvolgo la filosofia come ancilla: da un lato per resistere al – come chiamarlo? – riduzionismo algoritmico, dall’altro per dissipare l’illusione che il potere o l’organizzazione possano dar forza alla pratica della carità

Ivan Illich

Il contributo di Riccardo Prandini è un approfondimento del tema illichiano della perversione del messaggio evangelico che conduce a una vera e propria "catastrofe antropologica". "Scopo del saggio è il paradossale tentativo di rileggere la tesi illichiana a partire dal suo ultimo “adversarius”, quella teoria dei sistemi ciberneticamente fondata che, fino alla fine degli anni Settanta, egli aveva conosciuto attraerso il lavoro e l’amicizia di Heinz Von Foerster e, in un primo momento, aveva pensato come alleata “anarchica” contro l’establishment scolastico.

Il pervertimento dell’evangelo può essere così osservato come un processo di continua e crescente differenziazione tra la società (ormai auto-differenziata per funzioni, ma che include anche organizzazioni e interazioni) e il suo ambiente umano. Dal punto di vista “personale” – a taglia di persona – il processo si rivela come crescente cosificazione, spersonalizzazione, desensibilizzazione, disembodiment, standardizzazione delle diversità, disabilitazione personale, colonizzazione delle coscienze, etc.: dal punto di vista sociale, il processo si disvela come esplosione di contro-produttività, d’internalità negative, aumento di dipendenze, impoverimento, autonomizzazione e incontrollabilità del sistema tecnico, esplosione d’ingiustize a livello planetario, etc. Culturalmente, infine, si manifesta come processo di “scientificizzazione-elementarizzazione” dell’umano che riduce il “personale” a un insieme di dati scientificamente spiegabili – e perciò tecnologicamente riproducibili – fino alla sua completa sostituzione mediate la creazione di un mondo di robot o cyborg. L’evangelo sarebbe così davvero pervertito, anzi ri-scritto da parte dei nuovi dei" (pp. 155-156).

Il contributo di Adalberto Arrigoni cerca di ripercorrere alcuni passaggi-chiave dell'opera di Illich concentrandosi in particolare su un tentativo di "bilancio" delle prospettive "conviviali". Arrigoni stesso, scrive nella presentazione del volume che: "vedere in Ivan Illich un “profeta” del nostro tempo non vuol dire sottolinearne banalmente la “lungimiranza”, la “preveggenza” o la “critica” alla società moderna e alle sue deformazioni legate allo sviluppo industriale, ma comporta anche e soprattutto evidenziare le “vie d’uscita” dai processi di “de-civilizzazione” della modernità – che ad Illich premevano almeno tanto quanto le sue lucidissime analisi di “crisi”. Lasciandoci ormai alle spalle il ricorrente e banalizzante topos interpretativo che vorrebbe un Illich “di sinistra”, “ecologista”, “post-conciliare” o addirittura “antagonista della Chiesa” si può ripartire assumendo la modernità come un “serissimo” problema che viene posto, in termini illichiani, come una fonte d’infelicità per interi popoli e per l’umanità intera. Illich ci indica anche la via per comprendere e “rimediare” lo scarto tra ciò che la modernità ha voluto essere e ciò che di fatto sono i suoi esiti, e tale via è il confronto tra modernità e cristianesimo, quest’ultimo assunto come complessa forza di civilizzazione e non solamente come ambito della fede" (p. 12).

Di grande interesse nel volume sono anche i contributi di Silja Samerski e Matthias Rieger sul modo di intendere e vivere la filosofia e la vita di ricerca da parte di Illich; il contributo di Alberto Pancotti su Morris Berman come fonte di Illich; la riflessione di Cataldo Maggio sull'avvento del post-umano nell'epoca della connettività; il confronto tra Roger Silverstone e Ivan Illich proposto da Simone Bonini e quello tra Illich e Foucault proposto da Fabio Ferrarese.

Sono certo che questo volume diventerà un punto di riferimento imprescindibile per quanti stanno tentando di far fruttare l'eredità di Ivan Illich e di spezzare "la congiura del silenzio" che impedisce di dare avvio a una stagione di "piena leggibilità" per un autore così importante.

Illich lo xenocristallo

Il piccolo e intensissimo testo di Illich Filosofia…Tecnologia…Amicizia è rivolto a un gruppo di filosofi cattolici. Secondo Illich oggi: " Le cose sono ciò che “conta”. Si tratti di pane o di tastiera, di condom o di automobile, al centro dei rituali che plasmano credenze stanno sempre delle cose, e le cose sono inevitabilmente determinanti di ogni momento della nostra incarnazione. È sempre andata così. D’altra parte, nel corso del ventesimo secolo, il cosiddetto sviluppo ha sempre di più trasformato il mondo in una cosa-fatta-dall’uomo. Progresso e crescita hanno significato più cose – e più cose che, in quanto artificialia, sono progettate per contare di più, e contare in modi che non hanno precedenti" (p. 74).

"La persona che oggi si sente chiamata ad una vita di preghiera e carità non può sottrarsi a una formazione intellettuale in materia di critica delle percezioni, perché oltre alle cose, anche le nostre percezioni sono largamente tecnogeniche. Tanto la cosa percepita quanto la modalità di percezione che essa sollecita sono il risultato di artificialia pensati dai loro progettisti allo scopo di plasmare gli utilizzatori. Il neofita della sacra liturgia e della preghiera mentale ha un compito storicamente nuovo. Egli è generalmente esiliato da quelle cose (acqua, luce del sole, suolo e intemperie) che erano state fatte per parlare della presenza di Dio. Rispetto ai santi che vuole emulare, la sua ricerca della presenza di Dio è di un tipo nuovo". (p. 75). "Oggi le cose dotate di effetti decisivamente nuovi sono i sistemi, costruiti in modo da cooptare, integrare a sé mani, orecchie e occhi dei loro utenti. L’oggetto ha perso la sua distalità diventando sistemico. Nessuno può facilmente rompere i legami forgiati da anni di ingestione televisiva e di educazione curricolare che hanno trasformato occhi e orecchie in componenti di un sistema" (p. 76). "è pressoché impossibile per un abitatore del “sistema”, desiderare una relazione Io – Tu come quella coltivata nelle comunità talmudiche o monastiche.

Aderendo a questo risveglio e trovandosi nell’incapacità di recuperare questa esperienza del passato, una sete si accende. Il desiderio di un sé nasce dall’amore rispettoso per un Altro" (p. 80) "Con un senso di nausea molte persone sono diventate capaci di riconoscere che la partecipazione ai sistemi castra e sterilizza il cuore, debilita la sensibilità etica. L’askesis, che vuol dire allenamento a rinunciare ad oggetti, è sul punto di diventare un primo e riconosciuto passo verso la teoria" (P. 80).

Ritroviamo in questi passaggi il metodo di Ivan Illich: la sua straordinaria attitudine filologica nel ricostruire i passaggi per verificare come e quando sono avvenuti certi "pervertimenti" nelle cose e nelle parole per descriverle. C'è sempre in lui una tensione etica, un desiderio di comunione, un riflettere sulla natura dei bisogni, un ragionare sulle risorse immediate e dirette dell'uomo.

Roberto Ciccareli nel suo recente volume: Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Manifestolibri, Roma 2018, ha scritto che: "Siamo diventati capitale umano, ma potremmo diventare altrimenti. Abbiamo abbracciato con immensa fatica questa nuova identità sdoppiata, spettro di se stessa. Facciamo lo stesso con il divenire che scorre sul suo rovescio e del quale noi siamo l'espressione. […] Abbandonare la casa del capitale, prendere direzioni diverse e sconosciute, trovando un passaggio che ci porta oltre ciò che pensavamo fosse l'umano, mentre era solo una sua ripetizione disumana" (pp. 221-222).

Ecco, credo proprio che Ivan Illich sia riuscito ad indicarci la strada verso una società più umana, in cui il posto dell'uomo è dato non tanto dalla potenza dei suoi strumenti ma dalla gioia della condivisione. Illich è ancora oggi uno xenocristallo, un diamante purissimo incastrato dentro il ferro delle macchine del nostro tempo. Continua a brillare mentre noi cerchiamo – spesso invano – di trovare ragioni a un tempo senza ragioni e senza compassione.


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