Cooperazione & Relazioni internazionali

Libia, ecco dove la guardia costiera libica rispedisce i profughi “soccorsi”

Sono tra le 25 e le 33 le prigioni “ufficiali” dove vengono rinchiusi i migranti per periodi indefiniti di detenzione, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento. Global detention project ha creato una mappa, ma sono ancora tanti i centri di detenzione che mancano all’appello per ragioni di sicurezza o perché in mano alle milizie. Ad esserne complici i governi dell’Ue che negli anni hanno stretto accordi con varie entità presenti in Libia

di Alessandro Puglia

Torturati, violentati, smistati nei centri di detenzione e costretti nuovamente a pagare. I migranti “soccorsi” e “intercettati” dalla così soprannominata guardia costiera libica vivono l’inferno dei centri di detenzione all’andata e al ritorno del loro viaggio, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento e costretti a pagare una forma di riscatto che non fa altro che alimentare il traffico di esseri umani. Una volta “soccorsi” e riportati in Libia i migranti vengono prima trasferiti nelle 16 zone di smistamento che si affacciano sulla costa e successivamente nelle carceri sparse per il paese.

É uno degli aspetti più inquietanti che emerge dal report di Global Detention Project, associazione con sede a Ginevra che promuove i diritti umani delle persone prive di cittadinanza. Incrociando i dati delle maggiori organizzazioni internazionali e non governative presenti sul territorio, come Unhcr, Oim, Amnesty International, ma soprattutto grazie al contributo di ricercatori e giornalisti presenti sul luogo, Global Detention Project già dal 2009 lavora per creare un database che mira a individuare i centri di detenzione in Libia, come già fatto in altri paesi del mondo.

Catalogarli tutti è impossibile e anche una classificazione tra centri di detenzione “criminali” e “amministrativi” è più che mai difficile. Questo perché i governi europei non possiedono dati sufficienti e perché un numero indefinito di centri di detenzione sono nelle mani di milizie e trafficanti, impedendo così l’accesso alle organizzazioni presenti sul territorio che svolgono un importante lavoro di assistenza ed evacuazione.

La Libia, da Sud a Nord, da Est a Ovest, è costellata di centri di detenzione, definiti anche “holding centres”: alcuni hanno la forma di prigioni, altri sorgono improvvisamente in vecchie scuole o fabbriche abbandonate. Qui migranti e richiedenti asilo subiscono ogni forma possibile di abuso, in assenza di leggi, con periodi di detenzione indefiniti, senza cibo, acqua, cure mediche e costretti ai lavori forzati. Donne e bambini non sono considerati soggetti vulnerabili.

I centri ufficiali, quelli controllati dal Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina sono tra i 25 e i 33 (ad aprile 2018 l’Unhcr ne ha contati 33), ma in realtà i centri di detenzione sono molto di più. A gestirli sono milizie, gang criminali, trafficanti di esseri umani che, come è già stato dimostrato, godono dei finanziamenti del governo, in un paese, la Libia, che occupa il 171esimo posto su 180 nella classifica dei governi con il più alto grado di corruzione al mondo, stando all’indice di Transparency International’s 2017.

Torture e violenze nei centri di detenzione in Libia sono solo in parte documentate. Nel 2013 Amnesty International ha verificato casi di violenze sessuali dove di notte uomini armati portavano via ragazzine di 13 anni per poi farle rientrare il giorno successivo. In quel lasso di tempo venivano violentate e se una di loro provava ad opporsi veniva minacciata con le armi o uccisa. Nei centri di detenzione libici – sottolinea Gdp – bambini e donne non sono separati e l’assenza di guardie di sesso femminile, che è una violazione delle norme per il trattamento dei prigionieri, espone ancora di più le donne ad abusi sessuali.

Tra i centri dell’orrore si annovera quello di Az- Zawiyah, nella costa ovest della Libia sul quale comunque vi è mancanza di informazioni a causa degli sviluppi militari in questa parte del paese. Qui le Nazioni Unite hanno indagato su una sparatoria da parte delle guardie nei confronti dei migranti. La prigione di Az- Zawiya è nata in una vecchia fattoria durante l’era di Gheddafi per ospitare più di mille persone. Come documentato da Amnesty International è questa una delle prigioni dove vengono trasferiti i migranti “intercettati” dalla guardia costiera libica. Az-Zawiya appartiene ufficialmente al Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina, ma di fatto è controllato dalle milizie di Al-Nasr, tanto da essere chiamato dai migranti “Ossama centre”. La brigata di Al Nasr è stata fondata da Mouhammad e Walid al-Koshlaf che vendevano petrolio rubato ai trafficanti locali dalla vicina raffineria di Zawiya. I Koshlafs erano connessi con l’ex comandante della guardia costiera locale Abdulrahman Al Milad, detto “Bija”, conosciuto per la sua stretta collaborazione con la rete di trafficanti e da qualche mese nella lista nera delle Nazioni Unite. Da comandante della guardia costiera locale “Bija” ha ricevuto fondi italiani e europei.

Sempre sulla costa ovest della Libia i centri di Al- Hamra e Aburshada – interconnessi tra loro – sono tra i peggiori. Qui ad ottobre 2016 sono state documentate una serie di morti da parte dell’Oim. Altri centri di detenzione sono a Zuwarah dove agli inizi del 2018 si contavano 800 migranti nigeriani, ivoriani, maliani e senegalesi; a Sabratah dove un centro di detenzione è stato improvvisato in una vecchia scuola; a Khoms (una vecchia fabbrica cinese) dove a luglio 2018 si registravano 283 migranti, mentre altri centri si trovano a Zliten e Kararim, il nuovo centro di detenzione di Misurata che ha sostituito la vecchia base militare di Al Kharouba.

Nella costa est, nonostante anche qui vi sia mancanza di informazioni, si trovano i centri inaccessibili di Alabyar, Albayda, Almarj, Assahel, Alqubba, Jaghbub, Jalu e Tamimi, e quelli governativi di Ajdabiya, Ganfuda (fino al 2014 in mano delle milizie), Tocra, Shahhat e Tobruk, quest’ultimo annoverato dall’Unchr come il 19 su 33 centri regolarmente visitato.

Nel Sud del paese, dove transitano i migranti provenienti dal Niger, ci sono altri centri di detenzione dell’orrore, come a Kufra dove diversi osservatori hanno riportato le condizioni inumane dove i migranti sono costretti a vivere. Senza luce, ventilazione, bagni, letti e con i pasti serviti una volta al giorno. Nel 2016 un uomo etiope, detenuto a Kufra, ha raccontato di essere picchiato regolarmente, chiuso in un container e torturato con l’acqua calda, mentre la moglie e altre donne sono state violentate. Altri centri di detenzione si trovano a Jufra (Al–Jufra), quest’ultimo giudicato uno dei quattro centri al Sud del paese dichiarati inaccessibili dall’Unhcr, insieme a quelli di Shati e Ghat. Ad Al Qatrun non è stato invece possibile verificare le condizioni dei migranti per motivi di sicurezza, il centro collocato ai confini con il Niger e il Ciad ha una capacità per ospitare 1500 persone.

I centri di detenzione attorno a Tripoli ad essere visitati da organizzazioni internazionali sono sostanzialmente cinque: Triq al-Seka, Hamza (Tariq al-Matar) dove a luglio 2018 si trovavano 1770 migranti, 680 eritrei, 240 sudanesi e 200 somali, Quasr (bin Gashir), con 472 migranti detenuti a Febbraio 2018, Ain Zara con 700 migranti detenuti a luglio 2018 e Tajura, quest’ultimo monitorato dall’Unhcr. Già nel 2017, Medici senza frontiere che aveva avuto accesso a 7 centri di detenzione nell’area di Tripoli, tramite il suo direttore generale Arjan Hehenkamp aveva descritto le condizioni inumane e degradanti del luogo, senza luce né ventilazione e pericolosamente stracolmo di persone.

Le condizioni inumane nei centri di detenzione in Libia non sono una novità e già nel 2005 i servizi segreti italiani riportavano come i poliziotti dovessero indossare delle maschere per via degli odori nauseanti. Nonostante la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, l’Europa – sottolinea Gdp – ha continuato a negoziare con varie entità presenti in Libia per controllare il flusso di migranti. Centinaia e centinaia di milioni di euro destinati proprio alle infrastrutture di detenzione e per equipaggiare le forze marittime, come nel caso della creazione della guardia costiera libica in base al Memorandum di intenti siglato dall’Italia nel 2017 (memorandum che segue il trattato d’amicizia tra l’Italia e la Libia del 2008) per cui dopo gli incidenti avvenuti il 6 novembre 2017 tra l’Ong Sea-Watch e i guardacoste libici è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti umani da parte del Global legal action network e da altri soggetti inclusi l’Arci e la Yale Law School’s Lowenstein International Human Rights Clinic. Come se non bastasse da giugno 2018 la Libia possiede una zona di ricerca e soccorso in mare (Sar zone).

É chiaro quindi – conclude Gdp – che affidando per via di accordi economici la politica sull’immigrazione alla Libia, l’Europa ha creato le condizioni per uno dei più pericolosi sistemi di detenzione al mondo.


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