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Impactscool: la piattaforma che racconta a giovani e aziende come sarà il futuro

Andrea Dusi, fondatore di Impactscool, dice: “Ci sono certe tematiche così veloci e imprevedibili che se non possediamo una coscienza collettiva finiremo col subirne”

di Redazione

Fra il successo arrivato con i cofanetti regalo esperienziali Wish Days (oggi conosciuta soprattutto per i pacchetti Emozione3 e prima ancora per il sito di vendita di esperienze regalo, Elation.it), poi venduti a Smartbox, e i recenti investimenti in startup che si occupano di quantum computing e proteine alternative, Andrea Dusi ha sempre tenuto la barra ferma: destinazione futuro. Lo stesso futuro che ora cerca di anticipare e raccontare – principalmente agli studenti delle scuole superiori – attraverso Impactscool: una piattaforma per la divulgazione delle tematiche tecnologiche che pone l’accento sugli impatti che quest’ultime esercitano sulla nostra società. «A me interessa molto tutto quello che è il peak tech, le tecnologie futuristiche per intenderci. Un po’ per curiosità, un po’ perché sono sicuro che tutto ciò che oggi noi conosciamo avrà una forma di disruption», afferma Dusi.

Andrea, come nasce e come opera Impactscool?
Impactscool nasce da un’idea di Cristina Pozzi e vede coinvolto, oltre a me, Andrea Geremicca come cofounder. L’obiettivo è quello di preparare i giovani e, più in generale, la popolazione al futuro. La prima fase di questo nostro progetto, che ci vede impegnati da ormai due anni, è quella di portare la consapevolezza degli impatti che le nuove tecnologie, quelle conosciute con il termine “esponenziali”, da un lato e i cambiamenti climatici e demografici dall’altro, hanno e avranno sulla società. Il pubblico a cui ci rivolgiamo sono gli studenti delle scuole superiori e delle università, in primis. Poi ci sono i professori e i professionisti, le aziende. Quest’ultime dimostrano molto interesse per i temi che trattiamo e, sebbene siano una parte minoritaria dei nostri impegni, risulta utile per finanziare altri progetti. Impactscool, infatti, è un’iniziativa no profit.

Più in particolare, come si svolgono i vostri incontri?
Abbiamo diversi “prodotti” che portiamo ai nostri interlocutori. Fra questi, per esempio, ci sono i nostri workshop immersivi che puntano ad andare oltre la classica lezione frontale per stimolare i ragazzi su scenari futuri ma probabili, cercando di dar loro dei ruoli da gestire, portare avanti, affinché nasca una discussione su tematiche che magari fino a quel momento non avevano mai affrontato. Altra cosa, invece, è il vision hacking: una pratica che noi abbiamo studiato all’Institute for the future di Palo Alto e ora cerchiamo di calare all’interno della nostra realtà. Il tutto per dare una risposta diversa e alternativa al modello “Singularity University”, di cui abbiamo una visione critica in quanto assume un approccio troppo tech dimenticandosi di mettere al centro l’uomo.

Ci sono certe tematiche così veloci e imprevedibili che se non possediamo una coscienza collettiva finiremo col subirne gli impatti etici, sociali, lavorativi, industriali

Fra i temi da voi trattati, c’è quello delle tecnologie esponenziali. Che posto ha il dibattito su questo argomento in Italia?
Purtroppo in questo campo ci sono molti sofisti. Essendo una materia nuova c’è un forte rischio, come successo per altri settori, che si finisca per parlarne quasi a vanvera. Quindi da una parte c’è molto colore, diciamo. Dall’altro, in realtà, soprattutto in certi ambienti, si percepisce forte la necessità di capire e studiare l’impatto di queste tecnologie al fine di anticiparne gli effetti: se so cosa sta per arrivare, so anche come gestire i cambiamenti che ne derivano. Noi puntiamo a questo: portare la consapevolezza dei mutamenti generati dalle nuove tecnologie non solo ai grandi manager, imprenditori e politici in un’ottica top-down, ma anche in un approccio bottom-up. D’altronde, ci sono certe tematiche così veloci e imprevedibili che se non possediamo una coscienza collettiva finiremo col subirne gli impatti etici, sociali, lavorativi, industriali, ecc. Un’eventualità che in un Paese come l’Italia, storicamente più in difficoltà nell’accettare e governare un cambiamento di questa portata, finirebbe col pesare sulle fasce più deboli della popolazione. A confortarci sono i numeri dell’interesse che tutto ciò suscita: solo nelle scuole abbiamo fatto più di 200 incontri, siamo stati in tutte le università private e pubbliche, abbiamo oltre 50 ambassador che hanno partecipato ai nostri eventi e che a loro volta sono diventati dei megafoni per i nostri contenuti.

Qual è, quindi, il differenziale fra i temi che voi proponete e le competenze, le conoscenze dei vostri interlocutori?
Il differenziale varia molto a seconda della tipologia di interlocutore che abbiamo di fronte e a seconda dell’area geografica in cui teniamo il nostro evento. In generale, però, troviamo moltissima attenzione e preparazione a un livello superficiale, ma maggiore difficoltà nel leggere gli effetti indiretti. Faccio un esempio.

Prego.
Più robot ci sono sul posto di lavoro, meno caffè si vendono alla macchinetta. Sembra una banalità, ma fa capire bene quale sia l’avanzamento di certe tecnologie. Se la prima fase è quella del disappointment per cui ci aspettiamo sempre che un’innovazione faccia più cose di quelle che inizialmente fa, poi si finisce con il non comprendere l’effetto indiretto sul proprio business.

Se la prima fase è quella del disappointment per cui ci aspettiamo sempre che un’innovazione faccia più cose di quelle che inizialmente fa, poi si finisce con il non comprendere l’effetto indiretto sul proprio business

Con studenti e professori, invece, quale esempio usate?
Per loro la cosa principale è sentirsi parte di un dibattito. Per questo sono molto utili i dilemmi morali, come quello dell’auto a guida autonoma che, sulla sua strada, si vede sbucare improvvisamente un bambino. Cosa deve fare l’auto? Investire il bambino per salvare la vita del conducente o evitare il bambino e finire addosso a un albero mettendo a rischio la vita del passeggero? A quesiti di questo tipo, noi ne aggiungiamo un altro: chi decide queste cose? Prima si riesce a creare una coscienza condivisa su queste cose e prima riusciremo a surfare il cambiamento.

E che spazio c’è, per tutto questo, nelle istituzioni e nel sistema scolastico italiano?
Noi abbiamo trovato, nel Miur, grandissima attenzione, preparazione e competenza su queste tematiche. Da rimanere a bocca aperta. Inoltre, proprio con il Ministero abbiamo firmato un protocollo di intesa e lo abbiamo accompagnato in un percorso che ha fatto su Futura (portale dedicato al piano nazionale per la scuola digitale, ndr) e nei vari istituti della penisola. Tutte esperienze che dimostrano quanta voglia ci sia di cambiare il panorama attuale per offrire agli studenti una preparazione migliore per la società del futuro. Certo, l’ideale sarebbe partire già dalle scuole elementari o addirittura dall’asilo. In Finlandia, per dire, c’è un materia che si chiama “futuro” dedicata ai bambini di sei anni. Per quanto ci riguarda, iniziare dalle superiori è già un buon punto di partenza. Qui, grazie a uno strumento come l’alternanza scuola-lavoro, c’è una forte propensione a mettersi in gioco sui temi di cui ci occupiamo. Ma stiamo anche lavorando per realizzare, dal 2019, un progetto che coinvolga le università…


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