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Famiglia & Minori

Fermiamo la guerra ai bambini di tutto il mondo

Battersi per tutelare il presente dei bambini non è una tattica mediatica da “buonisti” per impietosire un’audience disattenta, ma un dovere di tutti coloro che non vogliono suicidare il futuro di intere generazioni e, dunque, dell’umanità stessa

di Regina Catambrone

Art. 23 “Ciascuna Parte contraente accorderà il libero passaggio (…) di viveri indispensabili, di capi di vestiario e di ricostituenti riservati ai fanciulli d’età inferiore ai quindici anni”

Leggendo oggi la Convenzione di Ginevra del 1949 sulla Protezione dei Civili in Tempo di Guerra sembra di avere in mano un testo di fantascienza. Provo uno strano senso di estraneità mentre scorro gli articoli che, per evitare di ripetere gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, erano stati messi nero su bianco ad imperitura memoria. L’umanità, all’indomani del conflitto che nel cuore dell’Europa mise in dubbio le fondamenta stesse della nostra civiltà, si trovò spaesata. Ci si chiedeva come fosse stato possibile arrivare ai campi di concentramento, agli esperimenti sugli esseri umani e alla barbarie più assoluta. Ma soprattutto la domanda era: come possiamo evitare che succeda ancora? Cosa non dovrà mai più accadere?

Dal processo di Norimberga alla stipulazione delle varie convenzioni che consolidano il Diritto Umanitario, si sono moltiplicate le disposizioni a protezione di donne e bambini nei conflitti armati, oltre a normare il trattamento dei prigionieri di guerra, degli anziani, delle persone malate. Il fine ultimo era sempre evitare che un conflitto giustificasse trattamenti disumani e degradanti. Oltre alle persone, però, si pensò anche a proteggere le “cose”. In particolare, le “cose” che per gli esseri umani sono essenziali e che costituiscono un’infrastruttura fondamentale per la vita delle comunità. Da qui nacque il divieto di colpire scuole o ospedali, di salvaguardare qualsiasi luogo in cui i civili trovano protezione, di consentire la fornitura di aiuti alimentari e medici da parte degli operatori umanitari e di facilitare in ogni modo l’evacuazione della popolazione civile intrappolata fra i belligeranti.

Questa la teoria. Ben diversa è la pratica. Lo scorso dicembre l’UNICEF ha denunciato che mai come nel 2018 i bambini di tutto il mondo hanno sofferto a causa di guerre e conflitti armati. Sfruttati, abusati, reclutati per combattere, affamati e abbandonati a se stessi, nel 2018 l’umanità ha fallito nel proteggerli. Sono stati vittime di esplosioni o attacchi nelle scuole e negli ospedali e, con le loro vite, è stata polverizzata anche la loro infanzia.

Il 15 gennaio una bambina irachena di soli quattro anni ha perso la vita lungo la rotta fra la Grecia e la Turchia e il padre parla di “respingimento da parte della Guardia Costiera Greca”. Quella rotta avrebbe dovuto essere dismessa dal marzo 2016, ma gli arrivi sono sempre proseguiti come dimostrano i campi sovraffollati divenuti simbolo del fallimento delle politiche migratorie europee. Più volte è stato denunciato che all’interno del campo di Moria le condizioni igienico-sanitarie sono terribili e che i bambini hanno sviluppato comportamenti suicidi e autolesionisti. Molte delle persone rinchiuse in questa prigione a cielo aperto provengono dal Medio-Oriente insanguinato da interminabili conflitti e in tantissime fuggono dalla Siria dove nel 2018 “fra gennaio e settembre, le Nazioni Unite hanno verificato l’uccisione di 870 bambini, segnando un record nei primi nove mesi di ogni anno dall’inizio del conflitto nel 2011”. Non c’è scampo per i siriani condannati a perdere la vita in un mare di indifferenza, nell’oblio dei campi profughi dove l’inverno peggiora enormemente le loro condizioni di vita o da sfollati a “casa loro”. La maggior parte delle vittime ha meno di un anno e si tratta di una catastrofe “creata dall’uomo” visto che -in aperta violazione del Diritto Internazionale- si impedisce la consegna di aiuti medici e umanitari.

Inoltre, mentre scrivo 13 minori non accompagnati sono bloccati a bordo di una nave umanitaria davanti le coste siciliane in attesa di ricevere finalmente un porto di sbarco sicuro e adeguate cure mediche. In Yemen, invece, dove la popolazione è così stremata da andare a vivere nelle grotte come unica soluzione allo sfollamento. Secondo le stime, muore un bambino ogni dieci minuti a causa di malattie curabili e in 400.000 soffrono di malnutrizione acuta. Nel 2019, per sopravvivere almeno 2 milioni di yemeniti dipenderanno esclusivamente dall’assistenza alimentare, anche perché il potere di acquisto delle famiglie è quasi azzerato. Tuttavia, le organizzazioni umanitarie non hanno accesso al Paese e ciò significa che cibo o medicine rimangono un miraggio per chi ne ha bisogno. MOAS a dicembre ha lanciato una campagna proprio per portare la Phoenix in Yemen al fine di supportare i civili intrappolati e mantenere viva la speranza, come abbiamo fatto in Bangladesh con le Aid Station.

A seguito dell’esodo Rohingya, infatti, MOAS si è subito mobilitata per soccorrere una minoranza storicamente perseguitata che affluiva in massa in Bangladesh, dove fra povertà e catastrofe naturali era difficile coprire tutte le necessità. In quei campi sovraffollati, ho toccato con mano le conseguenze dell’indifferenza. Come non condividere le paure delle tante madri che erano rimaste sole a seguito della pulizia etnica in Myanmar e che vivevano nei campi bengalesi dove la sicurezza era molto precaria? Sfruttamento del lavoro minorile, abusi sessuali, rapimenti erano rischi concreti e minacce quotidiane in un contesto dove manca tutto dal cibo, alle cure mediche, all’acqua potabile.

Battersi per tutelare il presente dei bambini non è una tattica mediatica da “buonisti” per impietosire un’audience disattenta, ma un dovere di tutti coloro che non vogliono suicidare il futuro di intere generazioni e, dunque, dell’umanità stessa. È da loro che dobbiamo ripartire: dalle fondamenta della nostra società che oggi vengono continuamente prese di mira.

Art. 24 “Le Parti belligeranti prenderanno le misure necessarie affinché i fanciulli d’età inferiore ai quindici anni, divenuti orfani o separati dalla loro famiglia a cagione della guerra, non siano abbandonati a se stessi e siano facilitati, in ogni circostanza, il loro sostentamento, l’esercizio della loro religione e la loro educazione”


*Regina Catambrone è co-fondatrice della ong Moas


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