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In favore di un Reddito di Cittadinanza, ma non così

Nella scorsa legislatura Annamaria Parente (Pd) è stata relatrice di maggioranza in Senato sul Reddito di Inclusione. Ci ha scritto le sue valutazione sulla nuova misura all'esame della Commissione Lavoro del Senato, che martedì prossimo dovrebbe arrivare in Aula

di Annamaria Parente

Un sostegno al reddito per le persone in condizioni di povertà è giusto. Chiamiamolo Reddito di Cittadinanza o in altro modo. Al di là di questo, la proposta del governo è confusa, non equa e a tratti pericolosa.

Il provvedimento – in discussione in questi giorni in Commissione Lavoro del Senato – non sostiene i poveri, quelli veri. Lo hanno detto molto bene i sindacati con la manifestazione di sabato scorso e nelle audizioni in Senato: «Il Reddito di Cittadinanza, avendo un carattere ibrido tra contrasto alla povertà e misure di politiche attive, coniuga in modo improprio la povertà come criterio di accesso e le politiche attive come interventi previsti». Nella scorsa legislatura avevamo realizzato due misure, complementari ma distinte: il Reddito di Inclusione, prima legge nazionale di contrasto alla povertà, e un nutrito pacchetto di interventi di politica attiva, dall’assegno di ricollocazione alla istituzione dell’Anpal. Il Reddito di Cittadinanza non prevede una distinzione tra le due aree, creando confusione nel senso più autentico del termine.

I beneficiari del Reddito di Cittadinanza vengono individuati in base a indicatori di reddito del nucleo familiare, in una selezione meramente amministrativa. La carta viene erogata senza alcuna valutazione preventiva e con un controllo solo a valle. La mancanza di “un’accoglienza” delle persone e delle famiglie bisognose di sostegno si riflette anche nell’inefficienza dell’intervento. Tante persone aspettano il Reddito, ma i freddi criteri stabiliti per dividere i beneficiari chiamati dal Centro per l’impiego da chi andrà ai servizi sociali creano paradossi. Per esempio, un padre di famiglia che ha perso l’occupazione con due figli minori con problemi di disagio sociale viene mandato al Centro per l’impiego, mentre un single di 27 anni e senza lavoro viene indirizzato ai servizi sociali.

Il Reddito di Inclusione, costruito insieme ad Alleanza contro la povertà, al contrario, si è sempre approcciato alla povertà come misura di accompagnamento, di sostegno e di prossimità al fine di stimolare un circuito virtuoso tra reti sociali ed enti locali. La vera forza stava nel lavoro in sinergia tra i soggetti coinvolti. Le associazioni di Terzo settore e le attività di volontariato diventavano protagoniste di un impegno quotidiano volto ad aiutare chi sul territorio viveva in condizioni di difficoltà. Si compiva una lotta alla povertà non concentrata sul reddito, ma con una visione più ampia e strategica di sviluppo umano generativo e responsabile.

Invece nel provvedimento in discussione vige una logica punitiva. Alle persone a cui sarà data la carta servizi vengono monitorati i movimenti e non è concesso prelevare più di 100 euro al mese. Questa visione, figlia di un momento storico che mette a dura prova la democrazia, si scontra con gli ideali di chi, come me, crede che chi riceve sostegno non vada controllato ma responsabilizzato. Inoltre, una vigilanza sui consumi porterà ad appiattire l’innovazione e a bloccare la diversificazione della produzione industriale.

La strada da percorrere è dunque il potenziamento del Reddito di inclusione, con al centro il valore dell’emancipazione dalla condizione di bisogno. Per questo ho presentato un emendamento al provvedimento del Governo che amplia i beneficiari, aumenta l’assegno economico del REI e allo stesso tempo costruisce un’adeguata infrastruttura sociale, a partire dalle assunzioni di assistenti sociali nei Comuni. Nel testo propongo un fondo per il potenziamento delle politiche attive del lavoro per cui è necessario adottare un Piano nazionale per lo sviluppo dei servizi per il lavoro al fine di individuare priorità e interventi. Adottiamo un progetto serio di incremento delle politiche attive insieme alle Regioni, con una strategia che sa dove creare occupazione con investimenti ad hoc da qui a 15 anni e di conseguenza adattiamo sistemi scolastici, formativi, di orientamento e di incontro domanda-offerta. Di fronte a una strategia di questo genere suona veramente inconsistente l’immissione nei centri per l’impiego, deboli strutturalmente, dei navigator. Cosa può fare un navigator per chi non ha la terza media e vive in zone difficili come Scampia o Bastogi? L’esclusione sociale, la ricerca di un lavoro e la perdita di occupazione vanno affrontati in maniera differenziata.

Proponiamo anche una rivalutazione degli stipendi e dei salari perché non si può trovare l’alibi di ripararsi sotto il falso ombrello del Reddito di Cittadinanza.

In ultimo, è sbagliato sostenere che il Reddito di Cittadinanza contrasta la perdita di posti di lavoro dovuti all’automazione. È vero esattamente il contrario: così com’è concepito, non inserito in un piano di sviluppo economico e occupazionale del Paese, avrà vita breve e determinerà nuove disuguaglianze. In Italia abbiamo bisogno ora più che mai di pensieri e progetti consistenti di lunga prospettiva. Solo così aiuteremo le persone in difficoltà e i giovani che vogliono costruirsi un futuro.

Photo by Jacek Dylag on Unsplash


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