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Il lavoro negato al tempo della gig economy

Il lavoro, che nelle variegate e dimensionali sfumature rappresenta la condizione esistenziale dell’uomo, induce una profonda riflessione sul suo significato socio-economico e collettivo

di Pietro Piro

Quante volte in un ambiente di lavoro avete sentito ripetere: "Tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile"? La frase è agghiacciante. Ancora di più perché è spesso utilizzata per far capire allo sventurato che ne è vittima che non deve sentirsi unico o mostrare nessun segno di ribellione o di individualità.

Tutti siamo utili perché il capitalismo ci ha ridotto a merce utile per il profitto e per il consumo ma, in questa prospettiva, nessuno è indispensabile perché l'individualità e la personalità sono in realtà il più grande ostacolo al farsi-cosa della persona. Alla sua completa riduzione alla forma-merce. Le vere persone, quelle dotate di anima, carattere, personalità e autonomia, sono indispensabili. Non possono essere sostituite con chiunque altro. Perché sono uniche, irripetibili, integre.

Unici e problematici

Se penso alle persone che amo, so che la loro presenza non può mai essere sostituita da un altro generico. Perché la persona è portatrice di un discorso che la rende unica pur nella moltitudine delle vite.

Per questo motivo, questa frase, che ho sentito ripetere mille e mille volte, è veramente la frase simbolo del capitalismo. Capitalismo che non nasconde più il suo vero volto: la concentrazione di potere e denaro in pochissime mani e una condizione diffusa di sofferenza-debito-colpa-desiderio inappagato per la maggioranza (e per una parte anche fame-miseria-emarginazione-malattie-sfruttamento). Dentro questa cornice in cui si consumano indistintamente persone e cose, il tema del lavoro rappresenta uno dei temi più drammatici e urgenti da affrontare.

Nel suo Homo Deus. Breve storia del futuro, Y.N. Harari scrive: "La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere come impiegare tutti gli individui superflui. Di che cosa potranno occuparsi gli uomini, dotati di coscienza, quando avremo incoscienti algoritmi straordinariamente intelligenti che possono fare tutto meglio?" (p. 388).

Io credo che siamo solo all'inizio di una trasformazione del lavoro umano – e di conseguenza di tutta la società – di cui però oggi vediamo solo i primi sintomi. Sintomi che non lasciano molto spazio all'ottimismo perché sembrano riportarci indietro dal punto di vista dei diritti e dei percorsi di autonomia.
Mettere al centro il tema del lavoro serve a ragionare sul modello di società che stiamo costruendo e sulle leggi che governano il nostro vivere comune. Per tornare a ragionare su questi temi vorrei partire da due testi pubblicati di recente.

Lavoro alla spina


Il primo volume è Lavoro alla spina, welfare à la carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy a cura di Alessandro Somma, Meltemi, Milano 2019. Un libro che raccoglie saggi di Andrea Fumagalli, Francesco Garibaldo, Marta Fana, Francesco Massimo, Silvia Borelli, Marco Giustiniani, Sergio Bonetto, Marco Marrone, Alberto Avio, Edmondo Mostacci, Gianni Rinaldini, Umberto Romagnoli, che si interrogano sulle possibili declinazioni del tema del lavoro dentro le cornici del capitalismo bio-cognitivo; capitalismo delle piattaforme; la logistica; Il welfare aziendale; il sindacalismo (formale e informale); reddito di base e di cittadinanza.
Libro complesso e profondo che vede impegnati gli studiosi che lo hanno scritto in un corpo a corpo con un tema che si frammenta sempre di più e del quale è difficile dare un'interpretazione unica che sia in grado di accomunare tutti i cosiddetti "lavoratori" intorno a un progetto di rivendicazione di diritti.

Scrive nell'introduzione il curatore Alessandro Somma: "Il Novecento aveva collocato il lavoro al centro del patto di cittadinanza: al dovere di contribuire al benessere materiale e spirituale della società, corrispondeva il diritto di ricavarne le risorse necessarie a condurre una vita dignitosa, così come il diritto di accedere al welfare. Il tutto era alimentato da politiche economiche incentrate sulla spirale virtuosa originata da pratiche di sostegno della domanda, alla base di un incremento dei consumi e dunque della piena occupazione, oltre che dello sviluppo di una rete di beni pubblici.

Questa forma di capitalismo dal volto umano era incentrata sul potere contrattuale dei lavoratori in un mondo condizionato dalle dinamiche della guerra fredda, e per questo segnato dalla volontà di mantenere un accettabile equilibrio tra democrazia e mercato. Da questo punto di vista, quanto è accaduto a partire dagli anni Ottanta rappresenta un moto di reazione destinato cancellare le conquiste del Novecento, e soprattutto a impedire la possibilità di un loro ripristino. Tanto che il risultato finale si configura come un ritorno all’Ottocento, al secolo del capitalismo predatorio: la relazione di lavoro torna a essere una relazione di mercato qualsiasi, iniziata e terminata alla bisogna (lavoro alla spina), e la sicurezza sociale la contropartita per la rinuncia alla lotta politica, la cui concessione è affidata all’impresa (welfare à la carte). Il tutto mentre il welfare universalistico, oltre che dalla concorrenza del welfare aziendale, viene insidiato anche dall’introduzione di sedicenti redditi di cittadinanza, che sono in realtà strumenti pensati per incentivare il lavoro coatto, e persino forme di consumo coatto" (pp. 7-8).
L'analisi di Somma è impietosa e ci ricorda che in Italia 2.190.000 persone vivono oggi di "lavoretti" che non sono certo il frutto di una scelta di libertà ma il frutto di una impossibilità ad accedere a forme di lavoro regolare e ben retribuite (p. 15). Lavoretti che si basano su un sistema spietato di controllo e di analisi della reputazione del lavoratore (p. 21).

Anche il welfare aziendale è per Somma un segno negativo del logoramento del sistema dei diritti: "Il welfare aziendale rappresenta un problema innanzi tutto perché alimenta il moto verso lo smantellamento del welfare universale, se non altro in quanto si alimenta necessariamente di servizi e prestazioni forniti da soggetti privati. Di qui il nesso con lo sviluppo della sanità e della previdenza integrativa, e in genere del cosiddetto secondo welfare, la cui misura dipende a questo punto anche dall’esito della contrattazione ed è pertanto variabile: di qui l’idea di welfare à la carte. Il tutto nonostante le premesse, ovvero l’assicurazione che il secondo welfare non avrebbe determinato una contrazione del primo, quello universalistico. Il che è invece puntualmente accaduto in particolare negli ultimi anni, come risposta alle ristrettezze di bilancio imposte dalle misure austeritarie imposte dal livello europeo. Non solo. Il welfare aziendale finisce per assicurare livelli accettabili di sicurezza sociale ai soli cittadini che rivestono lo status di lavoratori.

Che dunque sono indotti a comportarsi in modo collaborativo per non perdere, con il lavoro, anche i beni e i servizi la cui erogazione il welfare universale delega sempre più al welfare aziendale: anche in tal senso quest’ultimo genera “benefici in termini di fidelizzazione e condivisione dell’apparato valoriale dell’imprenditore da parte dei propri dipendenti". Tutto ciò prefigura un futuro che ha il sapore di un passato lontano" (pp. 33-34). Somma è docente di diritto e confida ancora nelle possibilità della sua disciplina: "Le cose potrebbero però andare diversamente. Il diritto potrebbe cioè contribuire al contrasto del capitalismo delle piattaforme, al rilancio del lavoro come fondamento del patto di cittadinanza e del welfare come motore di giustizia ed emancipazione sociale. Magari partendo dalla valorizzazione della Costituzione e della sua tensione emancipatoria" (p. 9).

Umberto Romagnoli – integrando la prospettiva di Somma – nel suo contributo chiarisce quale sia la portata del contro-movimento del diritto del lavoro oggi: "Già oggi, e nel prevedibile futuro molto più che in passato, il moraleggiante principio per cui, se hai voglia di lavorare, un posto lo trovi sempre, non supera la prova dei fatti. Ecco, allora, perché la direzione di senso del tratto dell’itinerario percorribile dal diritto del lavoro è graficamente traducibile in un contro-movimento. All’inizio, il movimento fu segnato dal passaggio dallo status caratteristico delle società castali al contratto come elemento di garanzia di libertà. Poi, la stessa cultura “borghese” che gestì praticamente indisturbata il cambio di regime determinato dalla rottura dei vincoli feudali ha dovuto riconoscere l’inadeguatezza del diritto comune dei privati. Infatti smetterà di fingere di non sapere che, se la libertà contrattuale è la precondizione dell’autodeterminazione, quest’ultima può non esserci malgrado la proclamata libertà contrattuale.

Del resto, alla fi ne riconobbe che l’ideologia giuridico-politica che fa dell’autonomia negoziale il mezzo di cui dispone l’individuo per riappropriarsi del suo destino era una mistificazione. Se questo è il passato che sta alle spalle del diritto del lavoro, il suo futuro sta nel ritorno allo status. Che non può più essere lo status occupazionale o professionale, la nozione del quale è stata memorizzata da intere generazioni durante la secolare esperienza industriale. E ciò per l’eccellente ragione che l’esigibilità dei diritti di cittadinanza prescinde dalla tipologia dei lavori e relative regolazioni. […] si tratta di riordinarne gli intrecci al fine di stabilire nuove priorità secondo un criterio ordinante capace di incorporare il principio operante in epoca anteriore all’avvento dell’industria, quando nessuno pensava che si potesse convertire l’esistenza delle persone in un’unità temporale quantificata vendibile sul mercato" (pp. 276-277).

Dopo aver letto tutti i contributi del volume, sembra trasparire l'urgenza di pensare a un nuovo modello di cittadinanza che non sia centrato unicamente sul contratto di lavoro ma sull'unicità della persona, su ciò che fattivamente si oppone al suo essere ridotto a merce a cosa tra le cose.

Il secondo libro Il lavoro negato di Maria Efisia Meloni e Nereide Rudas (Mimesis, Milano 2019) è un libro sulle conseguenze psicologiche dell'assenza di lavoro nella vita delle persone. Le osservazioni contenute nel volume si appoggiano a una ricerca condotta su un campione di 1045 disoccupati sardi, caratterizzata da uno studio traversale con una metodologia articolata sul colloquio e la somministrazione di una complessa batteria di test. Le risultanze emerse sono espressione di una ricerca che ha focalizzato l’attenzione su come le persone affrontano un momento così critico, con il coinvolgimento e il malessere emotivo che convivono nel tentativo di conservare una gestione attiva della propria vita.

Le principali osservazioni che sono state ricavate da questa ricerca ci dicono che: "la deprivazione lavorativa, specie se prolungata o peggio cronica, rappresenta un evento stressante grave e drammatico. Dalla strategia difensiva che la persona deprivata mette in campo, si determinano risposte organiche e psichiche rilevanti, che possono esitare in numerosi e variegati disturbi e quadri morbosi, non esclusi quelli tumorali e psicotici. La deprivazione lavorativa cronica non necessariamente e automaticamente determina un disturbo o una malattia. È stato tuttavia scientificamente dimostrato che in molti disturbi e malattie, in cui figuravano fattori concomitanti con lo stress, specie se cronico, giocava un ruolo rilevante. La deprivazione lavorativa non determina un effetto lineare causa-effetto. Non è perciò corretto affermare che una depressione a valle di un licenziamento (ad esempio) sia stata causata da quel licenziamento. Non si parla in termini di causa-effetto ma in termini di correlazioni statistiche e loro significatività" (pp. 25-26).

La deprivazione lavorativa, pur se misurata con diverse scale, risulta un evento di vita altamente perturbante. La sua valenza negativa aumenta sensibilmente se il Life Event (perdita di lavoro) non rimane un evento unico e isolato, ma si presenta insieme ad altri Life Event. La correlazione più frequentemente accertata è tra deprivazione lavorativa e quadri depressivi. (p. 28).

Il lavoro negato


Fondamentali appaiono queste analisi fenomenologiche della percezione del tempo: "In chi-non-è-nel-lavoro si modificano i vissuti del tempo e dello spazio, i due parametri entro i quali si declina l’esistenza. […] Il tempo, non più scandito dai ritmi lavorativi, può apparire, specie all’inizio, un tempo più libero e più aperto. Ma man mano che la situazione deprivativa procede e la persona prende coscienza della propria situazione, la temporalità si deforma e si degrada e, insieme, si carica d’incertezza, d’ansia e paura. Il tempo, non più riempito dal lavoro e dal suo significato, si disarticola e si appiattisce: diviene un tempo disossato. I giorni diventano uniformi, monotoni, uguali a sé stessi: un solo oggi: dilatato e mostruoso, che non trapassa nel domani. Sono frequenti i reflussi nel passato, carichi di rimpianto per una vita attiva e forse gratificante. Quando, infatti, la partecipazione al presente diviene disagevole e penosa e la proiezione nel futuro incerta e bloccata, la gratificazione temporale viene ricercata nel passato" (p. 33)

" Chi-non-è-nel-lavoro può sentirsi non situato, non solo nel luogo del lavoro (rimosso da esso), ma non-situato esistenzialmente. Non più ubicato in una spazialità, egli può allora avvertirsi in maniera destabilizzante, andare incontro alla sensazione di essere ovunque e in nessun luogo. Questa alterazione del vissuto può conferire allo spazio una dimensione di estraneità, di in-familiarità. I luoghi, le strade e persino la propria casa possono così colorarsi di una tonalità spaesante di smarrimento e di angoscia ". (p. 34)

"Il deprivato del lavoro va incontro ad un’altra solitudine che ho definito solitaria. Va incontro ad una solitudine contraria, solitudine non scelta, ma subita, ad una solitudine abbandonica. Essa si specifica nella sofferenza tormentosa dello “stare-soli” e si declina come momento passivo che allontana dal processo di autenticazione, pervenendo non ad un arricchimento dell’Io, ma ad un suo impoverimento. È questa seconda dimensione della solitudine che si avverte come condizione dell’essere-stati-lasciati soli, d’essere stati trascurati, abbandonati, alla deriva del proprio destino. La solitudine abbandonica che si demarca nell’orizzonte di una zona d’ombra, ai confini della dis-realtà. Questo profondo vissuto di abbandono, di insicurezza, e di minaccia, sentimento di inautenticità, si può coniugare con una situazione “oggettiva” di isolamento, di emarginazione sociale in cui il deprivato lavorativo può incorrere. È a questa perdita di individualità e socialità che si correlano i più gravi rischi psicopatologici" (p. 35).

Fondamentale poi, a mio giudizio, è questa riflessione sull'urgenza dell'azione di liberazione da condurre con chi non è nel lavoro: "Rispetto ai diritti civili, essendo il lavoro un diritto pressoché universalmente riconosciuto (ed essendo un valore fondante della nostra stessa Repubblica), ne risulta che il deprivato-del-lavoro non è libero di esercitare un suo diritto costituzionale fondamentale. Il discorso tende così ritornare ai suoi assunti iniziali e si conclude. La deprivazione lavorativa è una delle grandi tragedie individuali e sociali del nostro tempo. Essa ci interroga profondamente e ci chiama a una partecipazione. Portare alla luce questi uomini che la deprivazione lavorativa ha reso invisibili, e restituire loro salute, dignità e libertà è il preciso compito di ognuno di noi e di voi tutti insieme" (p. 37).
Libro importante questo perché ci permette di avere uno strumento d'interpretazione della sofferenza delle persone che si trovano in una condizione assurda: vivono in una Repubblica fondata sul lavoro, ma sono senza fondamenta perché non sono nel lavoro.



Lavoro come vocazione



Più approfondisco il tema del lavoro e più mi rendo conto che siamo di fronte a uno dei problemi più urgenti e decisivi del nostro tempo. Troppe persone restano fuori dal mondo produttivo e diventano facilmente scarti di una società improntata al consumo e allo spreco. Spreco di vite, di energie, di creatività, di sogni. Eppure, se guardo a questo nostro Paese, vedo tantissimo lavoro da fare: lavoro per ricostruire tutti i comuni colpiti dai terremoti; lavoro per mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici e privati nelle zone sismiche; lavoro per costruire strutture antisismiche in grado di ospitare servizi essenziali come scuole e ospedali; lavoro per bonificare le terre inquinate dai rifiuti, per tutelare la costa e il paesaggio. Lavoro per recuperare e mettere in rete tutto il patrimonio artistico e culturale, lavoro per ricucire le periferie, per liberare le città dal traffico e dallo smog, per renderle vivibili e sicure. Lavoro per recuperare tutti i casolari di campagna abbandonati e trasformarli in centri di agricoltura naturale capaci di produrre cibo fresco e a basso costo. Lavoro per trasformare le aree industriali dismesse in centri culturali e artistici. Lavoro per piantare milioni di alberi in grado di regalarci ossigeno e ombra e per regolare il clima. Lavoro per convertire le produzioni inquinanti in produzioni eco-sostenibili. Lavoro per creare un esercito d’insegnanti entusiasti e preparati per colmare il ritardo culturale,
Non servirebbe un esercito di medici, infermieri, sanitari, per rendere le cure più umane e disponibili per tutti? Non servirebbe una immensa quantità di giovani al lavoro per costruire un Paese democratico, culturalmente avanzato, in cui convivono pacificamente tutte le religioni e le culture in una paidéia sostenuta da un etica universale?
Credo che questo nostro Paese abbia un immenso bisogno di lavoro. Compito della politica prima, e del sistema produttivo poi, rendersi conto che il lavoro non è una merce, non è un costo e non è una funzione. Il lavoro è la possibilità concreta che abbiamo di dare forma ai nostri desideri, ai nostri sogni alle nostre aspirazioni. C'è "al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una
destinazione, una vocazione" nel lavoro. Ritrovarne "il senso" profondo è il nostro compito.


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