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Comunità concreta e beni comuni: risorse per l’Italia di tutti

I grandi temi della comunità, del bene e dei beni comuni, della pubblica felicità sono al centro dell'ultimo libro di Andrea Rapaccini e Johnny Dotti. Un lavoro che, sulla scia di Olivetti, ci permette di fare il punto su tante questioni. E rilanciare il tema di una nuova via da intraprendere, oltre le facili dicotomie (Stato o mercato, pubblico o privato), per tornare a discutere di economia civile

di Pietro Piro

La Comunità di Adriano Olivetti

Nel 1945, in un Europa devastata dalla Seconda Guerra Mondiale, appare per le Nuove Edizioni Ivrea – ma stampato in Svizzera – il libro di Adriano Olivetti, L'ordine politico delle Comunità (Comunità Editrice, Roma 2014). Libro essenziale per comprendere la visione profonda di Olivetti che teorizza il superamento dello Stato per dar vita alla vera Comunità umana. Comunità che: "è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell'attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano tra agricoltura, le industrie e l'artigianato di una determinata zona ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà. Le Comunità creando un superiore interesse concreto, tendono a comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini" (p. 33).

La Comunità di Olivetti è per il suo ideatore l'unica forma completamente umana di vita sociale. Al centro c'è la persona e il suo sviluppo spirituale, la solidarietà, l'occuparsi di problemi concreti con i mezzi della tecnica più avanzata ma sempre con il fine di dare energia alle relazioni. Comunità fondata sull'Evangelo dove non è più tollerato: "il divorzio tra morale pubblica e morale privata" (p. 47). Una comunità "concreta" dove la partecipazione del cittadino non è un evento eccezionale o legato all'azione di un capo carismatico ma quotidianità (p. 50). In questa Comunità la cittadinanza: "potrà essere conferita a tutti gli stranieri, senza distinzione dello Stato da cui provengono, in virtù di una decisione di quella Comunità ove, per un determinato periodo, lo straniero avrà stabilito la sua residenza, Gli elementi di decisione saranno esclusivamente quelli morali" (p. 43).

In questi mesi ripenso continuamente alle pagine di straordinaria bellezza scritte da Olivetti. Mi chiedo cosa penserebbe di un Paese che invece di sviluppare sempre più le sue doti migliori, si avvita in un perverso gioco identitario-securitario. Un Paese in piena regressione civile dove è sempre più difficile spezzare le catene della povertà, dell'esclusione sociale, della marginalità. Un Paese che non ha ancora compreso il potenziale rivoluzionario dell'opera teorica-concreta di Adriano Olivetti.

Forse, Olivetti ci inviterebbe a lavorare fermamente sulle nostre qualità morali e a lasciarci guidare da quei valori "inesauribili e insostituibili" che ispirano quei "politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell'Evangelo" (p. 46).

Continuare dunque, nella ricerca di forme di convivenza che ci permettano di "esplicare la nostra umanità e spiritualità". In questa direzione, il volume di Luigino Bruni, La pubblica felicità. Economia civile e political economy a confronto (Vita e Pensiero, Milano 2018); ci permette di rileggere le "tappe" dei due umanesimi che hanno generato il capitalismo anglosassone e quello latino. Bruni dopo aver magistralmente analizzato le due vie di sviluppo capitalistico, auspica una sintesi tra le idee sviluppate in questi due sistemi di felicità pubblica e felicità individuale. Scrive a proposito Bruni: "La cultura di mercato post-moderna, di matrice essenzialmente nordamericana, sta cercando di convincerci che l'happines abbia a che fare con i feeling, con il consumo di beni sempre più individuali, in luoghi sempre meno abitati.

La pubblica felicità latina ci ricorda invece che, se vogliamo capire la felicità delle persone dobbiamo prima di tutto guardare al lavoro, ai diritti, alle libertà, ai poveri , al welfare, ai luoghi del vivere, alla politica, alle relazioni sociali" (p.163). Bruni auspica una nuova primavera per l'Umanesimo meridiano perché sospetta che nel secolo che verrà l'elemento scarso sarà sempre più la comunità e i beni più preziosi quelli relazionali (p. 163) e perché è convinto che la felicità pubblica non è altro che la pre-condizione di ogni felicità individuale.

L'Italia di tutti

Un altro volume che, a mio avviso, si muove nella direzione indicata da Olivetti è stato scritto da Johnny Dotti e Andrea Rapaccini, L'Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni (Vita e Pensiero, Milano 2019). Un libro "ibrido" che vorrebbe: "smontare i muri delle aggregazioni tra uguali, delle corporazioni tra soggetti simili per ricostruire nuove alleanze tra diversi. Ibrido perché si sviluppa attraverso più dimensioni, quella antropologica, storica, sociologica, economica e infine anche quella politica, cercando di unirle in un pensiero e in una visione coerente" (p. 13).

Dotti e Rapaccini sono due studiosi molto diversi tra loro. In questo libro cercano di far confluire in un unico punto esperienze vissute e modelli teorici e il risultato è un libro aperto a più interpretazioni ma che mira a una nuova visione nella gestione dei beni comuni. Un tema molto delicato e spesso abusato ma che rappresenta un vero e proprio tesoro per un Paese come il nostro.

È legge dell'universo che non possiamo fare la nostra felicità senza far quella degli altri

Antonio Genovesi

Preponderante nel libro è l'impianto personalistico (ritorna Olivetti e il mediterraneo di Bruni): "Quali sono le condizioni per tenere insieme crescita e bene comune? La prima condizione è non farsi soffocare dall’idea di uomo come individuo. Siamo immersi in questo vero e proprio mito illuministico che ci ha quasi travolto. L’Italia non troverà vie alternative concrete all’attuale modello di sviluppo né avrà voce nel dibattito internazionale se non riscopriremo l’idea tutta mediterranea dell’uomo come persona, non come individuo. Esistenzialmente la persona è un nodo unico di relazioni. Orizzontali e verticali, interne ed esterne. L’individuo è l’astrazione di questo nodo: non ha alcuna esistenza senza le relazioni che lo costituiscono." (p. 31). Inoltre, è l'impresa (dai molti volti) a essere vista come fattore preponderante di sviluppo e innovazione (ancora Olivetti).

Secondo Dotti e Rapaccini "Il futuro dei beni comuni passa infatti da quattro verbi che tocca alla pubblica amministrazione declinare nei modi e nei tempi giusti. Integrare, orientare, ingaggiare, scegliere. È da questo livello, quello degli enti locali e di governo, il più vicino al territorio, che può ripartire un’azione politica partecipata sul tema. E nascere una nuova responsabilità pubblica. […] Sui beni comuni la politica degli enti locali e di governo sarà in futuro sinfonia d’orchestra o non sarà. Perché non è dato avere sviluppo di un territorio che non si inquadri entro compatibilità ambientali, sociali, culturali; senza che tali compatibilità siano misurabili ex ante ed ex post; e, infine, senza che su compatibilità ed effetti – in fase tanto di progettazione quanto di valutazione – siano coinvolti tutti i portatori di interesse del territorio. Si tratti della gestione integrata di rifiuti o della messa a regime di un bene architettonico, ogni atto politico genera infatti impatti quantificabili, e determina agganci con e ripercussioni su ambiti confinanti, che vanno previsti e gestiti. Il concerto tra gli attori politici della pubblica amministrazione e la misurabilità delle loro azioni e dei relativi impatti sono la premessa di un autentico ingaggio tra amministrazioni e cittadinanza. Sono la condizione di una politica che crei valore condiviso e partecipato. […] Quel che conta, al di là delle tecnicalità possibili, è che nella pubblica amministrazione si diffonda un criterio di valutazione delle scelte che non sia improntato esclusivamente al criterio economico, alla resa in termini finanziari, ma che includa come driver di scelta almeno le tre dimensioni: ambientale, culturale e sociale. […] Esiste oggi, ed è urgente, questa necessità: individuare e valorizzare luoghi e soggetti in cui la competenza può nutrire una vocazione al governo della cosa pubblica e dei beni comuni, anche (perché no?) attingendo al settore privato. […] le sfide economiche e sociali che riguardano i beni comuni ci interrogano innanzitutto sulla preparazione delle nostre classi dirigenti e sulle competenze richieste ai vertici delle nostre amministrazioni, come anche delle imprese private.

La società individualista, egoista, che riteneva che il progresso economico e sociale fosse l'esclusiva conseguenza di spaventosi conflitti di interessi e di una continua sopraffazione dei deboli sui forti, la società polverizzata in atomi elementari o spietatamente accentrata nello Stato totalitario è distrutta. Sulle sue rovine nasce una società umana, solidaristica, personalistica: quella di una Comunità concreta

Adriano Olivetti

Traggo ancora dal libro di Rapaccini e Dotti: «Grandi gruppi energetici, gestori di network nazionali di trasporto, banche e assicurazioni di sistema, gruppi editoriali-culturali, associazioni di rappresentanza come anche municipalizzate e grandi amministrazioni pubbliche quali Regioni e città metropolitane richiedono management capaci di incidere sul funzionamento di tali organizzazioni attraverso processi di ristrutturazione che oggi si annunciano estremamente impegnativi. […] gestire grandi processi di trasformazione è cosa estremamente raffinata. Proprio per questo non è cosa diffusa. La nostra classe dirigente si polarizza infatti su due profili contrapposti. Da un lato il manager ‘anglosassone’, con spiccata intelligenza razionale, tipicamente preparato sugli aspetti hard del cambiamento (visione e regole), ma con minore sensibilità emotivo-relazionale e quindi tradizionalmente debole sugli aspetti soft (consenso e simboli). Dall’altro, il manager ‘mediterraneo’, con spiccata intelligenza relazionale, forte sensibilità politica, capace di un forte storytelling soprattutto verso l’esterno e abile utilizzatore dei simboli del ‘potere’ all’interno dell’organizzazione. Capace di ottenere risultati a breve grazie a una spiccata gestione del consenso e di team building, risulta essere poco efficace nei cambiamenti strutturali. Per ottenere risultati e cambiare in profondità grandi aziende e soprattutto grandi organizzazioni pubbliche italiane, è necessaria una classe manageriale in grado di integrare le capacità dei due profili sopra citati. È su queste capacità che i modelli formativi del management pubblico del futuro dovranno essere indirizzati. [….] Dalla gestione dei beni comuni passa una nuova fase di politica post-ideologica, inclusiva e partecipativa per enti locali e Regioni. Essi possono diventare un laboratorio di policy e di strumenti nuovi, per superare le vecchie categorie e proporre anche a livello internazionale un modello diverso. L’Italia può dire la sua in questo anche su scala globale. Può e deve farsi capofila di un modello alternativo a quello liberista di matrice anglosassone, facendo leva sui tratti del modello mediterraneo, con quel peculiare rapporto tra persona, Stato e Mercato e quella capacità di armonizzare differenze tra territori ed esperienze di cui si è detto fino a qui. Serve una sorta di convocazione culturale collettiva che coinvolga pubblico, privato e privato sociale e che individui una via politica nuova, inedita per amministrare i beni comuni per il bene comune. È il tempo giusto per farlo. Se non ora, quando?» (pp. 133-147).

Il libro di Dotti e Rapaccini è denso di suggerimenti pratici, proposte di modelli di gestione, analisi delle risorse, suggerimenti per la promozione del cambiamento. Un libro utile per promuovere la riflessione sui beni comuni e per superare i "crinali critici del cambiamento" che gli autori individuano nel passaggio da una società verticale a una orizzontale, l'eclissi del processo rappresentativo in democrazia, la crisi dell'idea di crescita economica come sola espansione, la fine dell'individuo monade (pp. 28-29). Riusciremo a costruire percorsi di partecipazione nuovi? I due autori ne sono convinti e il libro è supportato da un cauto ottimismo.

La Comunità nascente

Sono convinto che accanto all'umanità sprecona, egoista, edonista e consumista, esiste anche una nuova umanità nascente – prendo in prestito questa definizione da Marco Guzzi – che sta raffinando i propri strumenti ermeneuti per guidare i processi decisi del futuro prossimo venturo. Un'umanità orientata alla vita, che cerca di liberarsi delle angosce dell'accumulazione compulsiva e dalle politiche dello sfruttamento. Dal potere di pochi molto concentrato e narcisista a un "potere di tutti" molto attento alla parola di ognuno, e forse, finalmente, anche del silenzio.

Ora questa umanità nascente soffre sotto i colpi dello spreco e della manipolazione ma ha già gettato le radici profonde per un fiorire di cui, forse, anche chi scrive non vedrà i frutti maturi.

Eppure, i segni di questa grande lotta sono sotto gli occhi di tutti. Concludo queste brevi osservazioni citando ancora la "profezia" di Adriano Olivetti: "La società individualista, egoista, che riteneva che il progresso economico e sociale fosse l'esclusiva conseguenza di spaventosi conflitti di interessi e di una continua sopraffazione dei deboli sui forti, la società polverizzata in atomi elementari o spietatamente accentrata nello Stato totalitario è distrutta. Sulle sue rovine nasce una società umana, solidaristica, personalistica: quella di una Comunità concreta" (p. 42).


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