Economia & Impresa sociale 

Disuguaglianze? La risposta è l’impresa sociale

Il centro di ricerca Tiresia del Politecnico di Milano prova a rispondere alla crescita delle disuguaglianze studiata da Joan Rosés, professore alla London School of Economics e Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino. «Riteniamo che lo sviluppo del terzo settore e delle delle imprese a impatto sociale possa rappresentare la risposta», sottolinea Mario Calderini

di Lorenzo Maria Alvaro

L’effetto del nuovo modello economico basato non più sull’industria, bensì sulla conoscenza, ha come risultato la diseguaglianza territoriale in vertiginoso aumento.

«Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione. Ci stiamo dirigendo lì», a parlare è l’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, che insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un algoritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza.

La tesi è contenuta nel volume The Economic Development of Europe's Regions A Quantitative History since 1900firmato a quattro mani dai due studiosi.

Rosés e Wolf sottolineano come non solo la ricchezza si accumuli nelle mani di pochi, ma che si concentra in alcune aree, per lo più urbane, creando il vuoto intorno. Dati alla mano, l’hanno dimostrato nell’abstract del libro “The return of regional inequality: Europe from 1900 to today”, dove si dimostra come il periodo di diffusione della ricchezza si è concluso a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la chiusura dell’epoca fordista e con la fine delle grandi fabbriche, per fare spazio all’economia della conoscenza e alla globalizzazione.

L’Italia è fra i paesi più colpiti da questo fenomeno di impoverimento diffuso. Tant’è che non è più possibile parlare di un Nord ricco e di un Sud povero, ma succede che i comuni più indigenti si trovino non troppo lontano dalla più ricca città italiana, Milano. Dalle dichiarazioni dei redditi 2017 si scopre che fra i dieci comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci sono i due municipi comaschi Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della provincia di Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera, si tratta di Cavaglio-Spoccia , Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso, record nazionale con una ricchezza pro capite di 5.568 euro l’anno, in crollo del 24 per cento rispetto a due anni fa.

I quattro comuni si trovano tutti nell’impervia e isolata val Cannobina dove, fino a qualche decennio fa, si viveva di coltivazione e allevamento. Poi la gente del posto è migrata in Ticino, dove l’industria prospera e lassù sono rimaste non più di 700 persone, sprovviste di tutto. Non c’è una scuola, un asilo nido, un pronto soccorso, una banca, un supermercato e le strade, soggette a frane, vengono chiuse di frequente: meno di un mese fa il collegamento con la Svizzera è stato interrotto per l’ennesimo smottamento in cui hanno perso la vita due persone. Sono valli e montagne dimenticate da dio e sono anche l’esempio perfetto dell’Italia mappata dalla Presidenza del consiglio all’interno della Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, cioè quelle zone in cui i servizi scarseggiano.

Le Aree Interne rappresentano oltre metà dei comuni italiani, ospitano meno di un quarto della popolazione, ma occupano il 60 per cento della superficie nazionale e, come dicono gli economisti Rosés e Wolf nel loro lavoro, quelle zone stanno aumentando. E non coinvolgono più le tradizionali aree del Centro Sud, ma anche zone del Nord, come l’altopiano di Asiago, un tempo distretto turistico importante, oggi cenerentola di Cortina d’Ampezzo che d’inverno e d’estate fa il tutto esaurito, mentre ad Asiago non si ferma nessuno. E ancora soffrono le Dolomiti friulane, che nonostante non abbiano nulla da invidiare a quelle trentine stentano a intercettare la crescita economica: dopo la chiusura delle caserme al confine, non trovato altra fonte di reddito, ed è sfumato il tentativo di fare del monte Coglians, un tempo presidio militare, un luogo di prosperità.

C’è di più, Rosés sostiene che in Italia l’aumento delle disuguaglianze porterà anche alla fine del modello dei distretti industriali, spazzati via dalla nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città più forti: «Il boom economico aveva portato all’Italia una fase di espansione e diffusione del benessere nelle province, perché è lì che gli imprenditori hanno aperto gli stabilimenti, facendo proliferare i distretti produttivi industriali. Oggi, invece, l’economia della conoscenza tende ad accentrare i migliori capitali umani nella città. Quest’ultima ha bisogno di poche persone molto istruite e ciò sta creando poli di estrema ricchezza e benessere, lasciando tutti gli altri al palo.

Questo fenomeno si sta verificando ovunque. Ma esiste una via d’uscita?

Secondo il centro di ricerca sull'innovazione e la finanza sociale Tiresia, che fa capo alla School of Management del Politecnico di Milano sì. E ha presentato il risultato di uno uno studio al riguardo in aprile con l’evento “Le Origini delle disuguaglianze, l'economia della conoscenza e il ruolo di una generazione di imprese sociali” al Politecnico di Milano. All'incontro, coordinato da Mario Calderini, direttore della School of Managment, ospiti proprio Joan Rosés e Nikolaus Wolf.

La soluzione alla diseguaglianza proposta dal Politecnico e che sarà poi divulgata anche al mondo della politica, consiste nello stimolare l'impresa sociale, le cooperative, le società no profit, che hanno già le caratteristiche per invertire la rotta delle diseguaglianze.

«Secondo i dati raccolti dal Tiresia Social Impact Outlook nel 2018 è in costante aumento la disponibilità di capitali per lo sviluppo di imprese ad impatto sociale, grazie a un'offerta di finanza sotto forma di credito o investimenti in equity di oltre 210 milioni di euro. Se si include anche l’offerta di finanza sostenibile secondo i criteri di Environmental and Social Governance gli asset under management ammontano a 6,5 miliardi di euro», spiega il professor Calderini.

Il report di Tiresia mostra che nel 2018 le organizzazioni ad impatto sociale italiane, pur avendo nel 76 per cento dei casi un’intensità tecnologica bassa, mostrano segnali di dinamismo verso l'innovazione tecnologica: quasi il 9 per cento delle imprese a impatto sociale ha un'intensità tecnologica medio-alta in un settore, come quello del sociale, tradizionalmente labour intensive. «Tale dato consente di leggere la presenza di forme di social-tech, anche nel contesto italiano. Le imprese social-tech sono state definite come imprese sociali connotate dall’utilizzo di tecnologia per risolvere sfide e problemi sociali. Da notare inoltre, che nel caso italiano, le forme meno tradizionali di impresa a impatto sociale come le start-up innovative a vocazione sociale, le cosiddette siav, e le società benefit sembrano mostrare un livello di intensità tecnologica generalmente più elevato: circa due quinti delle siav intervistate e quasi un terzo della società benefit mostra infatti un’intensità tecnologica alta o media».

Una mappatura effettuata sulla popolazione di tali organizzazioni mostra che più di un quinto di di queste (20,79 per cento) è localizzato in aree territorialmente marginali, le cosiddette aree interne, lontane dai centri, i poli dove i servizi più importanti si concentrano. La densità delle imprese a impatto sociale appare tendenzialmente omogenea sia nei centri e nelle marginali: 1,55 imprese a impatto sociale ogni 100 mila abitanti e 1,36 nelle aree interne. Il report di Tiresia mostra inoltre che, così come nei grandi centri urbani, anche nelle aree interne gli imprenditori a impatto sociale sono particolarmente istruiti: nelle aree interne il 55 per cento degli imprenditori a impatto sociale ha una laurea di primo o secondo livello, il 56 per cento nei centri.

«Questo appare come un dato incoraggiante che sottolinea un potenziale territorialmente diffuso di competenze per affrontare le sfide insite in un potenziamento imprenditoriale, tecnologico e finanziario. Continueremo a mappare le imprese ad impatto sociale sul territorio italiano perché riteniamo che lo sviluppo del terzo settore e delle aziende di questo tipo possa rappresentare la risposta e la soluzione all'espansione delle disuguaglianze che sta colpendo l'Italia».

«I dati presentati confermano una potenzialità delle imprese ad impatto sociale, come infrastruttura sociale diffusa. Facendo leva sulla capacità di queste organizzazioni di intervenire sul territorio in maniera capillare, tale infrastruttura potrebbe essere utilizzate come motore di un nuovo sviluppo industriale maggiormente inclusivo, non dimentico dei bisogni sociali e territoriali, in grado così di arginare le conseguenze delle disuguaglianze attraverso nuove forme di impresa sociale», spiega il professore.

Ma cosa manca? «Perché tutto questo sia possibile è necessario da un lato che la politica includa l'imprenditorialità sociale dentro il perimetro delle politiche industriali», conclude Calderini, «dall'altro il Terzo settore deve strutturarsi in modo forte perché un po' di eccellenze ci sono ma amcna come settore».


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