Cooperazione & Relazioni internazionali

Un piano realistico per (e con) l’Africa

Visto il calo drastico degli arrivi di migranti una parte rilevante dei fondi destinati all’accoglienza dalla legge di Bilancio non saranno spesi. Si va da un’ipotesi minima di 500 milioni a una massima di 1 miliardo di euro. Una quota di tali fondi potrebbe essere destinata a progetti direttamente nei Paesi africani. La proposta di Giampaolo Silvestri, Segretario generale Avsi

di Giampaolo Silvestri

Ha una forza divisiva l’Africa. Di qua gli euforici, convinti che «è il nostro futuro», di là i depressi del «non ce la farà mai». Ma mentre ci si divide nei dibattiti, il mondo è in corsa verso l’Africa: per accaparrarsene un pezzo, una risorsa, una ferrovia da costruire, una quota di forza lavoro, una soluzione all’inverno demografico europeo. Perciò proponiamo un piano concreto con e per l’Africa. Restare al balcone a guardare, non è proprio nelle corde di chi fa cooperazione. Così come non è nostro compito partecipare alla «corsa all’oro». La vicenda interessante è piuttosto cambiare prospettiva e impostare rapporti e relazioni Europa-Italia-Africa nuove a tutti i livelli. Scommettiamo su un piano realistico, quindi aderente alle opportunità e criticità, ma che non rinunci all’ambizione di innestare una nuova marcia.

Le opportunità le offre la legge di Bilancio: una parte rilevante dei fondi destinati all’accoglienza non saranno spesi, visto il calo drastico degli arrivi di migranti. Si va da un’ipotesi minima di 500 milioni a una massima di 1 miliardo di euro. Una quota di tali fondi potrebbe essere destinata a progetti direttamente nei Paesi africani. Un’opzione questa che dimostrerebbe che al controllo dell’immigrazione che cerca il nostro governo lungo i confini corrisponde un impegno effettivo nei luoghi di origine dei flussi; che al contrasto all’emigrazione irregolare si abbina la costruzione di alternative tramite lo sviluppo delle economie locali.

Come investire, dove e in quali progetti? Anche qui assecondare la realtà aiuta: si devono privilegiare interventi e progetti già in essere che si siano dimostrati efficaci, e potenziare il loro impatto attraverso un processo di scaling up. Rifiutiamo la logica da coloni nel nuovo millennio, e investiamo energie nel concertare ogni piano e azione con interlocutori africani delle istituzioni locali e nazionali, della società civile, dell’impresa… Le risorse disponibili dovrebbero essere usate come leva per attivare altri finanziamenti attraverso la compartecipazione finanziaria delle banche di sviluppo, di organismi internazionali e della stessa Unione europea. All’inizio gli interventi dovrebbero insistere su 9-10 Paesi al massimo, quelli dai quali provengono i flussi migratori più incidenti o nei quali c’è una presenza italiana più radicata, sia di imprese che di società civile da valorizzare. Educazione, agricoltura, energia e climate change non possono che essere i settori primi di intervento, in quanto decisivi per la messa in moto di processi di sviluppo sostenibile.

Se i bambini, i giovani e le donne devono essere il primo target, il metodo lo determinano loro stessi: la formazione al lavoro e l’inserimento lavorativo, sempre fondati su un’educazione di qualità, verificata nei risultati, non solo segnata sui registri di classe. Perché da qui prendono avvio i percorsi di institutional building e costruzione di una classe dirigente capace di interloquire alla pari con chi anima la «corsa» all’Africa, di non farsi sfruttare, di bandire la corruzione come sistema stabile e di rinunciare a visioni di piccolo cabotaggio.

Il movente di questo piano con e per l’Africa è alla fine puro interesse: ogni gol a cui puntiamo (dal più ambizioso come il climate change a quello più basico) è irraggiungibile senza il coinvolgimento di chi sta dall’altra parte del Mediterraneo. Detto altrimenti: o stiamo in piedi tutti, o cadiamo tutti. Noi preferiremmo la prima.


Da Il Corriere della Sera del 11 aprile 2019


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