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Disabilità, termometro di innovazione

Le persone con disabilità sono un peso sociale o una risorsa? Spesso parliamo dei disabili come persone vulnerabili, mentre sono persone vulnerate da segregazioni ed esclusioni. Oggi è più disabile un ragazzino di un paese in cerca di sviluppo che non va a scuola e resta analfabeta o un cieco che legge e scrive con la sintesi vocale? Valutare il contributo che le persone con disabilità possono dare è un tema che interroga le nostre società

di Giampiero Griffo

Spesso la condizione di disabilità è vista con gli occhiali deformati. Chi vorrebbe vivere in sedia a rotelle? Chi non avrebbe orrore di muoversi con un bastone bianco? Chi accetterebbe di comunicare senza sentire? Questa percezione comune può giungere a costruire una lettura distorta delle persone con disabilità: alcuni economisti americani di scuola benthaniana (Jeremy Bentham è stato un economista del ‘700 che sosteneva che le risorse della società erano limitate quindi dovevano essere distribuite in modo da massimizzarle per lo sviluppo della società) ha sostenuto il “paradosso della disabilità”. Infatti, intervistando persone con disabilità si meravigliavano che esse dichiarassero di avere una qualità di vita buona e spesso ottima. In realtà il paradosso nasceva nella mente degli osservatori: essi partivano dal pregiudizio che una vita con limitazioni funzionali importanti dovesse essere in ogni caso di bassa qualità.

Tale interpretazione si basa sull’idea che la condizione di disabilità sia legata alla persona che, a causa di una condizione di salute, non possa svolgere molte attività della vita. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (2006) delle Nazioni Unite ha completamente rivoluzionato questa impostazione. Infatti “la disabilità” – recita il preambolo e) della Convenzione – “è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri “. Lo sguardo quindi si sposta sulle responsabilità degli stati e della società che nei secoli hanno prodotto un forte stigma sociale negativo, segregando e cancellando queste persone e costruendo un mondo pieno di barriere, ostacoli e discriminazioni. Il tema – stima l’OMS – riguarda più di 1 miliardo di persone nel mondo e una recente ricerca dell’ISTAT stima che il 25% della popolazione italiana (circa 13 milioni di persone) vive con una disabilità.

Le Nazioni Unite con questa Convenzione – ratificata dal 91,6% dei paesi aderenti all’ONU – hanno iscritto i problemi che la società crea alle persone con disabilità nel campo della violazione di diritti umani. L’accesso negato ad un sistema di trasporto, l’esclusione dalla frequenza nelle scuole ai bambini con disabilità in molti paesi, la difficoltà a trovare un lavoro, l’inaccessibilità delle città sono stati inclusi negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile come temi che riguardano l’insieme degli stati, per garantire che anche queste persone hanno diritto a beneficiare della crescita economica rispettosa dei diritti umani.

Se riflettiamo su questo approccio, che sottolinea che è la società che disabilita le persone se le tratta in maniera differente, non rispettando le loro caratteristiche, scopriamo che in Italia e nel mondo, le società disabilitano un numero cospicuo di persone: per esempio i migrati, che pur essendo esseri umani, hanno la sola colpa di non essere cittadini del paese in cui emigrano; le donne che non godono degli stessi diritti degli uomini in molti parti del mondo; dei credenti di una religione che sono perseguitati perché non appartengono alla religione prevalente. La lista potrebbe continuare coinvolgendo un numero impressionante di esseri umani. Il mondo ha giustificato questi comportamenti etichettando come vulnerabili queste persone. In realtà, ricostruendo la storia dei loro trattamenti sociali, si scopre che queste persone sono state vulnerate da segregazioni ed esclusioni.

Eppure gli esempi di persone famose che hanno convissuto con un condizione di disabilità sono numerose. Pensate al grande astronomo/cosmologo Stephan Hawkins : nessuno lo ha mai descritto come persona con disabilità, anche se si muoveva in sedia a rotelle e comunicava con l’ausilio di un computer. Gli esempi potrebbero essere tanti: Beethoven era sordo, Flaubert asmatico, Toulouse Lautrec con malformazioni congenite… Queste persone non sono state ridotte ad una caratteristica, ma sono state valutate come persone.

Valutare il contributo che le persone con disabilità possono dare è un tema che interroga le nostre società. Oggi è più disabile un ragazzino di un paese in cerca di sviluppo che non va a scuola e diviene analfabeta, che un cieco che legge e scrive con la sintesi vocale. Purtroppo le politiche di inclusione delle persone con disabilità rimangono relegate alle politiche sociali e sanitarie, le cui risorse sono disponibili nei periodi di crescita economica, ma vengono tagliate nei periodi di crisi. Parafrasando una massima evangelica: le persone con disabilità sono gli ultimi a ricevere sostegni, ma divengono i primi ad essere colpiti durante le crisi. Eppure dovremmo essere pienamente parte della società e beneficiare di tutte le politiche generali: occupazione, trasporti, educazione…

Gli interventi sulla disabilità in realtà sono un formidabile indicatore per misurare l’innovazione non solo del pubblico, ma soprattutto del sociale e della sua capacità di coinvolgere e potenziare le comunità sui territori. Pochi sanno che il telecomando nasce come ausilio per permettere di cambiare i canali al posto delle manopole dei vecchi televisori o che l’email – lo strumento di comunicazione più usato al mondo – è stato progettato partendo dalla comunicazione tra sordi.

La storia di Manuel Bortuzzo, divenuto paraplegico a causa di un colpo di pistola alla schiena non destinato a lui, ci dice molto di come il mondo ci pensa: leggendo le cronache giornalistiche le parole più usate erano dramma, tragedia, una vita spezzata. Invece la reazione di Manuel ci mostra che la vita non finisce perché ci si muove con una sedia rotelle, bensì ricomincia da seduto con un ventaglio di opportunità analoga a tutti gli altri. La disabilità non è una condizione soggettiva, ma una relazione sociale, spetta agli stati, alla società, alle stesse persone con disabilità il compito di ridurla e superarla.

Giampiero Griffo è membro del consiglio mondiale di Disabled People’s International e coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità. Il testo è l'editoriale del numero di VITA di aprile. Foto Julian Rizzon per Fondazione Don Carlo Gnocchi (Bolivia)


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