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Sport dilettantistico, conviene ad associazioni e società sportive entrare nel Terzo settore?

Nel mondo sportivo dilettantistico esistono dubbi e preoccupazioni in merito alla riforma del Terzo settore. L'analisi e i suggerimenti di Antonio Fici, professore di Diritto privato nell’Università degli Studi del Molise e avvocato esperto di enti non profit

di Redazione

L’organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche costituisce una delle attività di interesse generale individuate dall’articolo 5 del Codice del Terzo settore. Queste associazioni hanno la possibilità di assumere, oltre alla qualifica di ASD mediante iscrizione nell’apposito registro del CONI, anche quella di enti del terzo settore a seguito di iscrizione nel Registro unico nazionale del Terzo settore. Questa scelta però viene vista con aqnsia e preoccupazione: non è infatto chiaro se e quanto sia conveniente essere enti di Terzo settore. Per provare a diradare questi dubbi abbiamo intervistato Antonio Fici, professore di Diritto privato nell’Università degli Studi del Molise e avvocato esperto di enti non profit.


Professore, cominciamo col capire qual è il rapporto tra sport dilettantistico e Terzo settore?
L’organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche costituisce una delle attività di interesse generale individuate dall’articolo 5 del Codice del Terzo settore (CTS). Precisamente, si trova alla lettera t) del lungo elenco di attività presente in quella norma. Ciò comporta che un’associazione che abbia come proprio scopo ed oggetto sociale lo svolgimento di attività sportiva dilettantistica senza finalità lucrative potrebbe decidere di assumere la qualifica di ente del terzo settore iscrivendosi nel Registro unico nazionale del terzo settore (RUNTS). Colgo anche l’occasione, a tal proposito, di ricordare che l’ingresso nel terzo settore è sempre un’opzione, e mai un obbligo. Di conseguenza, deve sempre effettuarsi, per tutti gli enti potenzialmente interessati, sulla base di un’attenta valutazione costi/opportunità.

Che conseguenze ne derivano per le associazioni sportive dilettantistiche iscritte nel registro del CONI?
Queste associazioni hanno la possibilità di assumere, oltre alla qualifica di ASD mediante iscrizione nell’apposito registro del CONI, anche quella di enti del terzo settore a seguito di iscrizione nel RUNTS. Tra le due qualifiche, infatti, v’è piena compatibilità, come ha anche chiarito l’Agenzia delle Entrate in una ben nota circolare dell’agosto 2018. Aggiungo: la disciplina del terzo settore rafforza e declina alcune regole e principi organizzativi che già si applicano alle ASD in virtù della loro disciplina particolare (quella di cui all’art. 90, commi 17 e 18, legge 289/2002, e all’art. 148, comma 8, TUIR), sicché le ASD farebbero davvero poca fatica a qualificarsi come enti del terzo settore per ciò che attiene ai profili organizzativi e gestionali. Volendo essere ancora più precisi, anzi, le ASD potrebbero, tra le varie qualifiche particolari del terzo settore, assumere quella di associazione di promozione sociale (APS), che per varie ragioni è per loro la più congeniale, oltre che la più vantaggiosa, sotto numerosi profili.

Perché la qualifica di APS è quella più vantaggiosa per le ASD?
Perché le APS, assieme alle organizzazioni di volontariato (ODV), sono le tipologie di enti del terzo settore più avvantaggiate dal legislatore della riforma. I vantaggi sono numerosi e non riguardano soltanto ed esclusivamente il versante fiscale. Le APS (e le ODV) sono anche favorite sul fronte dei rapporti con gli enti pubblici (si pensi all’art. 56 CTS) e dell’accesso ai fondi pubblici (si pensi all’art. 72 CTS). Inoltre le APS sono la tipologia del terzo settore più adeguata allorché l’attività svolta dall’associazione abbia natura mutualistica piuttosto che solidaristica, sia cioè indirizzata verso ed in favore degli associati, come di fatto accade con riguardo alle ASD. Il fatto che già prima della riforma del 2017, sulla base della previgente legislazione, molte ASD erano anche APS costituisce ulteriore prova di quanto sostengo.

Per quale ragione, allora, nel mondo dello sport dilettantistico esistono dubbi e preoccupazioni in merito alla riforma del terzo settore?
Talvolta i dubbi sono legati ad una lettura imprecisa della nuova disciplina. In questo caso, essi possono e devono essere dissipati da un’interpretazione più attenta della medesima. In altri casi, invece, vi sono delle questioni reali da affrontare con cautela. Mi riferisco in particolare al fatto che le ASD che s’iscrivono nel RUNTS – ovvero le ASD che, in forza del regime transitorio, non si cancelleranno dal RUNTS cui “trasmigreranno” automaticamente dai registri del terzo settore in cui sono attualmente iscritte – perdono la possibilità di applicare alcune norme fiscali loro specificamente dedicate e per loro particolarmente vantaggiose. L’art. 89, comma 1, CTS, stabilisce infatti che agli enti del terzo settore non si applicano l’articolo 143, comma 3, l’articolo 144, commi 2, 5 e 6 e gli articoli 148 e 149 TUIR, nonché la legge 16 dicembre 1991, n. 398. Sostanzialmente, pertanto, le ASD che sono anche ETS/APS perdono la possibilità di applicare il loro particolare regime di decommercializzazione dei corrispettivi specifici, così come previsto e disciplinato dal TUIR, nonché il loro particolare regime IVA e IRES, così come previsto e disciplinato dalla legge 398/1991. Deve inoltre ritenersi che tali ASD perdano anche la possibilità di applicare normative che a loro volta presuppongono l’applicazione del regime ex legge 381/1991, come quella di cui all’art. 25, comma 2, legge 133/1999 (sull’esenzione di alcuni proventi dal reddito imponibile).

Ma perché allora le ASD dovrebbero decidere di iscriversi nel Registro del terzo settore?
Perché se da un lato è vero che le ASD iscritte nel RUNTS come APS perdono quei vantaggi fiscali sopra indicati, dall’altro lato, tuttavia, è anche vero che, in quanto APS, le ASD diventano destinatarie di numerose norme di favore, di un gran numero di vantaggi e benefici non solo di natura fiscale. Anche nel CTS esiste un particolare regime di decommercializzazione dei corrispettivi specifici applicabile alle APS, che è molto simile a quello del TUIR che le ASD perderebbero entrando nel terzo settore. Ed anche nel CTS le APS godono di un regime forfettario (applicabile fino alla soglia di 130.000€) molto vantaggioso. Oltre a questi benefici, ve ne sono tanti altri che ho approfondito in un mio recente scritto sul tema.

Qual è dunque la conclusione della sua analisi? È conveniente o no per una ASD diventare APS?
Non c’è una risposta univoca: ciascuna ASD dovrà effettuare un’analisi costi/benefici relativi all’ingresso (ovvero alla permanenza) nel terzo settore. L’esito dipenderà dalle specifiche condizioni di contesto relative a ciascuna ASD. ASD con elevate entrate commerciali e/o con elevate entrate da tesserati non associati (alle stesse o ad altre ASD della medesima rete nazionale) è presumibile che si chiamino fuori dal terzo settore. Laddove ASD con ridotte entrate commerciali e/o ridotte entrate da tesserati non associati (alle stesse o ad altre ASD della medesima rete nazionale) è presumibile che abbiano grande interesse ad entrare (o permanere) nel terzo settore. Quel che è certo è pero che il mondo dello sport dilettantistico e delle sue organizzazioni dovrebbe guardare al terzo settore e alla nuova legislazione con grande attenzione ed interesse, poiché per molte ASD (forse per la maggior parte di esse) entrare nel terzo settore potrebbe rilevarsi la scelta vincente.

Questa sua valutazione può estendersi anche alle società sportive dilettantistiche?
Per le SSD lo scenario non è così diverso, ed anzi è forse ancora più promettente. Cominciamo col precisare che esse, considerata la loro natura societaria, possono entrare nel terzo settore soltanto qualificandosi come imprese sociali, dal momento che quella di impresa sociale è l’unica qualifica del terzo settore acquisibile anche dagli enti societari (incluse società di capitali e cooperative). Nella riforma del 2017, l’impresa sociale è risultata destinataria di una normativa ad hoc contenuta nel d.lgs. 112/2017. In essa, precisamente all’art. 18, vi sono alcune norme fiscali di grande interesse, come la totale detassazione degli utili reinvestiti e gli incentivi alla capitalizzazione di “nuove” imprese sociali. Quando queste misure saranno efficaci (si attende ancora un’autorizzazione della Commissione europea), esse potranno giovare al “decollo” delle imprese sociali, soprattutto di quelle società che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale da meno di cinque anni, come potrebbe accadere per le SSD che decidessero di qualificarsi come imprese sociali. Aggiungo anche che, a differenza delle ASD che si qualifichino come APS, le SSD che si qualifichino come imprese sociali non è detto che perderebbero la possibilità di applicare la legge n. 398/91, dal momento che, letteralmente, l’art. 89, comma 1, CTS, in combinato disposto con l’art. 79, comma 1, CTS, fa esclusivo riferimento agli “enti del terzo settore diversi dalle imprese sociali”. Sembra dunque esservi un’ulteriore, eccellente ragione per ritenere che la qualifica di impresa sociale costituisca per SSD una grossa opportunità.


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