Attivismo civico & Terzo settore

La svolta? «Ora più che fondi noi fundraiser raccogliamo relazioni»

La professione del fundraiser è sempre più dinamica e fluida, ed è andata ben al di là del tradizionale campo della raccolta fondi. Non solo l’attività di fundraising muove sempre nuove competenze, ma promuove atteggiamenti innovativi nel rapporto fra profit e non profit. Parlano gli esperti

di Marco Dotti

La professione del fundraiser è sempre più dinamica e fluida, ed è andata ben al di là del tradizionale campo della raccolta fondi. Non solo l’attività di fundraising muove sempre nuove competenze, ma promuove atteggiamenti innovativi nel rapporto fra profit e non profit.

In questi anni abbiamo assistito — spiega Nicola Bedogni, presidente dell’Assif, l’associazione italiana dei fundraiser — «al passaggio dal denaro a qualcos’altro: il fundraising, che traduciamo come “raccolta di denaro” è sbagliato. Il fundraising è raccolta di risorse in senso molto ampio: denaro, certo, ma anche tempo e coinvolgimento nella donazione del- la propria sfera sociale». In questo senso, il nuovo fundraiser, commenta Ni- colò Contucci, direttore generale di Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, «non è più necessariamente il professionista del fundraising. Ma è un attivatore: attiva altre persone in favore di una missione». Bedogni spiega che sono tre i perni attorno a cui ruota il nuovo orientamento della professione: Riforma del Terzo settore, innovazione tecnologica e cambiamento culturale.

Vediamoli con ordine. Riforma. Per la prima volta, all’interno di un testo di legge, viene citata la parola “fundraising”. Per la prima volta, con la riforma del Codice del Terzo settore, assistiamo all’apertura dello Stato nei confronti di un welfare del privato sociale. Innovazione tecnologica. Sono cambiati i parametri. Spiega Bedogni: «Le donazioni avevano delle tempistiche medio-lunghe. La tecnologia sta accelerando sia i tempi di coinvolgimento, sia la causa del coinvolgimento ossia la donazione». Con la donazione tramite smartphone, la reazione donativa può essere immediata, tanto quanto l’azione comunicativa. Il nuovo fundraiser si troverà sempre più a gestire questo cambiamento. Siamo davanti ad un vero e proprio — ed è il terzo aspetto sottolineato da Bedogni — cambio di paradigma cultural: «Il ragionamento egoistico di un tempo — “sostengo una causa che mi è vicina” — è stato sostituito da un ragionamento a più ampio raggio: “sostengo cause che coinvolgono l’intera comunità».

Quello che prima era un nucleo unico fra causa e organizzazione, racconta Alessandra Piccioni, responsabile comunicazione e raccolta fondi di Lega del Filo d’Oro, è oggi diventata una triade. Una triade dove la causa è fondamentale, ma è fondamentale nel momento in cui si fa comunicazione fundraising oriented. «Quando ho iniziato nel 2011», spiega Piccioni «quasi non esisteva la parola “fundraiser”. Sono passati 18 anni, e oggi ci riconosciamo in un titolo. Ma soprattutto si sono sviluppate professionalità e competenze più specifiche: sempre più analisi, pianificazione e attenzione a un donatore oggi più attento, consapevole e informato. La parte di comunicazione digitale, non necessariamente legata alla raccolta fondi, è strategica per la consapevolezza del donatore». Potremmo forse arrivare a definire fundraiser tutti i soggetti che concorrono nel tempo al mantenimento dell’organizzazione? «Oggi il fundraiser si confronta con sensibilità e contesti sempre più attenti alla diversity». Lo spiega Virginia Tarozzi, che vi- ve e lavora a Londra, dove ha fondato The Tin Can Collective, un network di freelance specializzati in strategia digitale e contenuti. «C’è un’attenzione senza precedenti all’inclusione di persone con esperienze di vita diverse — minoranze etniche e religiose e disabili», prosegue.

«E questo si riflette nei consigli di amministrazione, nei team di fundraising e nei contenuti che vengono pubblicati. Finora, il mondo del fundraising è stato composto principalmente da persone strettamente inglesi, di pelle bianca, relativamente benestanti, per cui anche i contenuti prodotti non sempre erano rappresentativi della comunità di riferimento». Sicuramente in Inghilterra la presenza della Chiesa e delle associazioni di matrice religiosa è molto minore. In Italia è invece ampia- mente diffusa e «la differenza si traduce in un tipo di fundraising più “caritatevole”, dove il beneficiario è qualcuno da aiutare; qui il fundraising è più “partecipativo”, il beneficiario è protagonista attivo del suo futuro e vengono prese azioni concrete per assicurarsi che l’impatto sia sostenibile. Questo si riassume in un termine che trovo meraviglioso: empowerment».

Patrice Simonnet, vice direttore generale per il marketing strategico e l’innovazione digitale del Fai—Fondo Ambiente Italiano ci dà uno scenario e qualche consiglio. «Il modo di formarsi deve più che mai essere continuo: il fundraiser di oggi qualunque sia la sua età si deve formare a contatto di tutte le realtà che fanno digitale — agenzie, software house, nuove piattaforme —, ma se fa solo questo è un professionista del digitale. Gli sfuggiranno sempre le logiche profonde del fundraising». Solo ascoltando chi ha vissuto altre fasi della professione, un giovane fundraiser «può imparare una visione e, soprattutto, un’etica. Perchè l’etica si passa di mano in mano, non è cosa da manuali. Si impara nelle organizzazioni e a contatto con persone che hanno una certa seniority».

Simonnet condivide con noi le 3 anime di questa professione. La prima è la curiosità. La curiosità di capire e vedere tutte le leve del fundraising attraverso lo scambio di casi concreti illustrati direttamente dai colleghi delle altre organizzazioni. La seconda caratteristica è il networking. «Conoscere e farsi conoscere, mostrare la propria professionalità. Presentare e rendere quello che abbiamo imparato dagli altri, conoscere gente, fare scambi informali di esperienze: è più di un’occasione, è crescita». La terza anima è la consapevolezza: «Non ci si improvvisa un giorno a fare il fundraiser! Fundraiser si diventa! ». Il consiglio è semplice: «Partire sempre dai numeri: se parliamo di un trend, dobbiamo conoscerlo a fondo. Che sia un trend di settore o della nostra organizzazione va analizzato in dettaglio. Curiosità, confronto, analisi e comprensione dei numeri, dunque».

Perché il successo nel fundraising, conclude Simonnet, «è sempre legato alla padronanza del budget ossia il rapporto tra investimenti e proventi. Ed è questo che permetterà alla “nostra” organizzazione di crescere e di poter avere il massimo impatto sociale».


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