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“Charity begins at home”: la storia di Save the Children, 100 anni fa, partì così

Nel 1919, al termine della Prima Guerra Mondiale, non sembrava proprio il momento di preoccuparsi dei figli dei nemici. Save the Children nacque in un «clima infuocato» e di «conflitto ideologico». Con obiezioni che somigliano in maniera impressionante alle attuali. Raffaela Milano ripercorre quei momenti e il realismo utopico di Eglantyne Jebb. Regalandoci una speranza

di Sara De Carli

«A Londra il primo pensiero è quello di aiutare gli orfani e le 200mila vedove inglesi che stanno piangendo i loro morti. Non è proprio il momento di preoccuparsi dei nemici e dei loro figli» (p. 9).

Il 19 maggio 1919, al “battesimo” di Save the Children, c’è la fila per entrare alla Royal Albert Hall. Fra tanti sostenitori c’è anche chi si presenta «armato di mele marce da tirare in faccia a quei “traditori che vogliono raccogliere fondi per i figli dei nemici”» (p. 78).

«What on Cornvall? Cosa fate per i bambini della Cornovaglia? Chiede polemicamente il “Daily Express. E sostiene che “charity begins at home”, la beneficenza inizia a casa propria. E dunque “prima gli inglesi”, come diremmo oggi» (p. 141).

Sono solo tre esempi, fra i tanti citati. Non di oggi ma di cento anni fa. Stesse parole, stessa paura, stessa tentazione. Prima noi, poi gli altri. Giustamente diventano il titolo del bel libro che ripercorre la nascita di Save the Children e traccia la figura di Eglantyne Jebb, la sua fondatrice: “I figli dei nemici”, scritto da Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children.

Perché per lei – Eglantyne Jebb, la “mamma di Save the Children e della Dichiarazione dei diritti del fanciullo – i figli dei nemici parlano la medesima lingua dei figli nostri: «non c’è nulla di più universale del pianto di un bambino», amava ripetere. Lei che i bambini «per quanto sia imbarazzante ammetterlo» non amava averli attorno: «visti da vicino i bambini la stancano e la infastidiscono», l’esperienza dell’insegnamento la trovò «frustrante» e nei suoi scritti «non si trovano mai parole di rammarico per non aver avuto figli». Ma è un dettaglio caratteriale. Il punto è che chi pensa che aiutare i bambini sia un’iniziativa tanto meritoria da mettere d’accordo tutti, non ha idea del «clima infuocato» e di «conflitto idelogico» in cui Save the Children è nata. Della «generale disapprovazione» che circondava questa nascita. Eppure.

Eppure Save the Children ha una storia lunga cento anni. Cominciata dalle 5 sterline che sir Archibald Bodkin, il procuratore capo, consegnò a Eglantyne Jebb al termine del processo con cui veniva multata per aver diffuso volantini con la foto di una bambina dell’Europa centrale che a due anni e mezzo pesa 5,5 kg, chiedendo «per cosa si batte la Gran Bretagna? Per far morire i bambini di fame?». La prima guerra mondiale infatti era terminata, ma il blocco navale che le nazioni vincitrici continuano a imporre alle nazioni sconfitte, per spingerle ad accettare una resa più dura, sta affamando milioni di persone. Eppure «un bambino è un bambino». E come disse George Bernard Show dando il suo pubblico appoggio a favore del comitato neonato, «non posso avere nemici che abbiano meno di sette anni».

Eppure Eglantyne Jebb riuscì ad «abbattere le barriere prodotte dai nazionalismi e da una malintesa cultura patriottica per recuperare, dopo l’orrore della guerra, il senso di una comune appartenenza umana», scrive Milano. La sfida di Save the Children, che solo un anno dopo la sua nascita si trasferisce da Londra a Ginevra, è quella di «ristabilire la collaborazione fra le società civili: “Il soccorso internazionale a favore dei bambini, che è nell’interesse generale, è anche una strada per permettere alla persone di partecipare a un’azione comune e quindi – su un piano accettabile per tutti – avere l’opportunità di imparare nuovamente a lavorar insieme». Così «la sua concezione di “sovranazionalismo” fa proseliti in una élite europea alla ricerca di una casa comune al di là della politica. Dopo gli orrori della guerra è una visione positiva, ottimista, fiduciosa nel fatto che il mondo abbia tutte le possibilità per sconfiggere la povertà dei bambini e assicurare una pace duratura». Perché – scriveva Eglantyne Jebb – «non c’è nessuna insita impossibilità nel salvare i bambini del mondo. È impossibile solo se noi ci rifiutiamo di farlo». E «ogni generazione di bambini, nei fatti, offre all’umanità la possibilità di ricostruire il mondo dalle sue rovine».

Chissà. Forse una chance l’abbiamo anche noi oggi. Cento anni dopo. E con settanta anni di pace alle spalle.


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