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Gli adolescenti e la fragilità della condizione umana

Un dialogo sulla fragilità dell’adolescenza fra Michela Marzano e il presidente dell’Associazione Amica Sofia, Massimo Iiritano, che promuove le pratiche di filosofia dialogica nelle scuole. «Bisogna tornare a Kant. Sento i miei studenti dire “io ti rispetto se tu mi rispetti”, come se il rispetto fosse una moneta di scambio, mentre Kant ci dice che il rispetto è ciò che è dovuto ad ognuno di noi, per quel che si è. Invece i dibattiti televisivi, gli insegnanti, i genitori, dicono che il rispetto lo si merita e quindi capiamo il contrario: cioè che il nostro valore dipende da come ci comportiamo e da come appariamo»

di Michela Marzano e Massimo Iiritano

Il caso di Noa, la ragazza olandese che si è lasciata morire a 17 anni dopo aver subito violenze appena entrata nel mondo dell’adolescenza ha riaperto il dibattito su giovani e fragilità. Per questo pubblichiamo questo dialogo che ci ha inviato il presidente dell’Associazione Amica Sofia, Massimo Iiritano, che promuove le pratiche di filosofia dialogica nelle scuole, avuto con la filosofa Michela Marzano. Il testo è già apparso sulla rivista semestrale dell’associazione.


Massimo Iiritano: Il tema che ci siamo dati, cara Michela, credo sia non uno dei temi possibili, quanto piuttosto uno dei più urgenti e imprescindibili per chi voglia assumere con consapevolezza il ruolo di educatore: sia esso genitore o docente. Da sempre l’adolescenza è considerata quella fase di passaggio, piena di inquietudini e fragilità, nella quale è assai facile smarrirsi ed è al tempo stesso così bello e necessario “formarsi”. C’è una canzone di un rapper di quelli apparentemente più “spinti” (Low Low), a volte anche volgari, che esprime ciò in maniera secondo me insuperabile, soprattutto perché tale descrizione proviene dalla voce stessa di un ragazzo del nostro tempo:

Io so che a sedici anni sei incazzato
Che anche mamma e papà ti sembran nemici
Io lo so che sei diverso dai tuoi amici
Perché pensi più di loro e ti senti un emarginato
Io lo so che a scuola ti senti sprecato
Che a volte sei malinconico e vedi tutto sfuocato
Che tieni le cose dentro e poi non ti sei mai sfogato
Che i più intelligenti soffrono e a volte è un dono ingrato
Ma il mondo è di quelli come me e te
Sei un farfalla pronta a uscire dal suo guscio
E quando prenderai il volo io sarò con te, si
Quando prenderai il volo io sarò con te.

Lowlow – Niente di più stupido di sognare

Quella che da sempre è una fase delicata e particolare dell’esistenza, appare dunque oggi in tutta la sua vulnerabilità: che è la fragilità stessa del nostro tempo, nella quale tutti siamo coinvolti. Quella che stiamo attraversando, si potrebbe dire, che è essa stessa un’età “adolescente”, potremmo paradossalmente dire, in cui regna spesso la più grande confusione intorno alla risposta a quel “perché” che, come già ci diceva Nietzsche, da troppo tempo ci manca.

Michela Marzano: Si, Il tema della fragilità degli adolescenti e della condizione umana è un tema davvero complesso, per affrontare il quale è necessario partire da un punto di vista.

Il punto di vista da cui voglio partire è un caso drammatico realmente accaduto. Gli psicologi parlerebbero, a questo proposito, di “vignetta clinica”, forse i filosofi parlerebbero di una “illustrazione”, fatto sta che è un caso drammatico: il suicidio di Beatrice, di 15 anni. Una ragazza che viveva nella provincia del Nord, precisamente in provincia di Torino e che una mattina invece di prendere il treno che avrebbe dovuto portarla a scuola, si è lasciata precipitare giù.. All’inizio si è pensato ad un tragico incidente, ma poi si è scoperto purtroppo che si trattava di suicidio. È stato ritrovato il diario di Beatrice, in cui ad un certo punto scriveva: “sono troppo grossa”, “sono troppo grassa”. Il diario terminava con l’addio ai genitori, con i quali cercava di scusarsi per la sua scelta. Una cosa che mi ha molto colpito, anche per l’analogia con il mio ultimo romanzo (L’amore che mi resta, Einaudi 2017).

Il tema del suicidio degli adolescenti del resto è ormai un tema sempre più diffuso, che ci tocca da vicino, o perlomeno da “interposta fiction”. Mi riferisco soprattutto alla serie tv “tredici”, che parte dal suicidio di una ragazza, la quale prima di compierlo registra tredici cassette in cui cerca di spiegare il perché del suo gesto. Quando si cominciò a capire che il gesto di Beatrice era stato un suicidio, io scrissi un commento su Repubblica che iniziava in questo modo “Sono troppo grassa, e allora? Se Beatrice se lo fosse detto, se ci avesse creduto, forse sarebbe ancora viva…”

Ho scritto e sottolineo “forse”, perché quando si parla della fragilità della condizione degli adolescenti, della vulnerabilità della nostra vita, che può portare a volte anche a gesti estremi come il suicidio, i motivi esatti non si conoscono mai. E ve lo dice una persona che ha fatto un tentativo di suicidio venti anni fa e venti anni di psicoanalisi per cercare di uscire dalla propria vulnerabilità, per poi capire che dalla vulnerabilità non si esce, ma piuttosto ci si convive. Ecco: se dopo venti anni di psicanalisi voi mi chiedesse il perché del mio tentato suicidio, io vi risponderei che non lo so. So solo che mi sentivo in quel momento totalmente spossata, e ho quindi provato a fare “un passo accanto” a quello che per tanti anni era stato il mio malessere….

Ma c’è qualcosa su cui si può lavorare. Perché se Beatrice avesse capito che poco importa l’apparire, quello che i compagni posso dire, i mi piace su twitter o su fb… probabilmente se poco importa è che si ha o si dovrebbe avere una qualche consapevolezza del proprio valore. Ecco, nessuno potrà mai sapere i motivi esatti, ma di sicuro se Beatrice avesse avuto consapevolezza del proprio valore sarebbe ancora viva. Perché ci si sbriciola e si arriva ad immaginare che l’unica via possa essere il suicidio quando ci si tiene su consapevoli del proprio valore, qualunque cosa si dica si faccia si appaia.

Ecco io credo che il problema che tutti noi abbiamo con la nostra fragilità è un problema di consapevolezza del nostro valore, a prescindere da tutto. Consapevolezza del proprio valore e quindi della propria dignità. Di solito, quando si affronta questo tema, lo si affronta da un punto di vista ontologico. Ossia come valore in sé che ogni essere umano possiede in quanto tale. Quello che vorrei invece focalizzare io è non solo questo, quanto l’accesso gnoseologico al nostro valore, la sua consapevolezza appunto. È ovvio che ognuno di noi ha un valore in sé, una dignità, ma se nessuno ce lo ha insegnato, nessuno ce la ha fatto vedere e capire, come facciamo noi a capire che quel valore è lì e che nessuno ce lo toglie?

Massimo Iiritano: Ecco, proprio qui, in questo delicatissimo punto, incrociamo già il senso del nostro lavoro di docenti. Ma ancora più in particolare il senso di quell’ambiziosa e “rivoluzionaria” missione che ci poniamo noi, da dieci anni ormai, con Amica Sofia. Una missione che potrebbe essere riassunta da un monito di Gianni Rodari che, già negli anni ’60, esortava i docenti a “rovesciare il metodo”: partire cioè non dall’insegnamento e dalla trasmissione della conoscenza, quanto piuttosto, al contrario, dall’ascolto, in particolare dei bambini. Quei bambini che, come scriveva Mario Lodi, nostro socio onorario, quando “arrivano a scuola a sei anni non sanno scrivere ma sanno parlare, no? E raccontano, raccontano, dicono di sé e degli altri. Un maestro comincia da lì, dalla parola. Deve governare la parola dei bambini con ordine non imposto ma concordato. Un maestro insegna a parlare e soprattutto ad ascoltare. È lì che nasce la democrazia, ed è lì che nasce la responsabilità”. La parola, l’ascolto. Può essere questo allora forse, ancora, il nuovo e allo stesso tempo antico punto di partenza: per prendersi cura di quella fragilità che, come dicevi, nasce proprio dalla mancata consapevolezza del proprio valore, della propria dignità.

Michela Marzano: Ecco allora un passo indietro. Che cos’è la dignità? Bisogna tornare a Kant. È stato lui il filosofo che dal punto di vista laico, dopo la rivoluzione cristiana, ci fa capire che cos’è che caratterizza noi in quanto esseri umani. Kant distingue tra due categorie di entità: le cose e gli esseri umani. E mentre le cose hanno un prezzo, un valore strumentale, d’uso e di scambio come avrebbero detto poi gli economisti, gli esseri umani non hanno mai un prezzo e hanno sempre una dignità. E che cos’è la dignità? il valore intrinseco, il valore in sé di ogni persona umana. Che non dipende dall’uso che io posso farne. Nonostante che in alcune visioni utilitariste dell’essere umano si sia arrivati a proporre l’utilizzo di un corpo per la cura di altri corpi, arrivando addirittura al criterio del sorteggio. Siccome 5 o 6 è più di uno, sarebbe morale cioè, da questo punto di vista, sacrificare una persona.

Ma torniamo alla visione di Kant. Il valore di ognuno di noi è indipendente da qualsiasi sua caratteristica e specificità: sesso, colore, tendenza religiosa… è un valore in sé, un valore intrinseco, che non dipende dal corrispondere ad una determinata immagine o a determinate aspettative. Per quale motivo dico questo? Perché noi oggi viviamo in una società in cui questo valore intrinseco non viene riconosciuto. Tanto è vero che sento i miei studenti del primo anno dire “io ti rispetto se tu mi rispetti”, come se il rispetto fosse una moneta di scambio, mentre Kant ci dice che il rispetto è ciò che è dovuto ad ognuno di noi, per quel che si è. Ma se noi oggi sentiamo i dibattiti televisivi, gli insegnanti, i genitori, dire che il rispetto lo si merita, noi capiamo il contrario stesso di ciò che dovrebbe essere: e cioè che il nostro valore dipende tutto da come ci comportiamo e da come appariamo.

Noi dobbiamo distinguere il regno dell’essere, ciò che si è, come diceva prima Caterina parlando del laboratorio fatto con i bambini, dal regno del fare. Gli adulti non devono insegnare il dover essere, ma devono insegnare a convivere con ciò che si è. Mentre la modellizzazione interviene nel momento in cui si parla di ciò che si fa. Il dover essere non si insegna, si insegna il dover fare. Le regole servono non per codificare l’essere ma il fare: ci sono cose che si devono fare e cose che non si devono fare, ma non esiste ciò che si deve o non si deve essere. Anche perché semplicemente, per quanto riguarda ciò che si è, non c’è scelta. Noi dobbiamo stare molto attenti ad evitare il problema di essere colpevolizzati per ciò che si è. “Sentiti colpevole, perché non sei eterosessuale” “Sentiti colpevole perché non sei alta e magra”… il problema è proprio qui, nella confusione tra ciò che si insegna, ossia ciò che si deve fare, il rispetto delle regole, ciò di cui si può e si deve essere responsabili; rispetto a ciò di cui non si può esserlo: ossia ciò che si è, che è qualcosa che noi non scegliamo. La scelta interviene nel momento in cui ci rendiamo conto che nel nostro essere c’è qualcosa che non va e che deve essere cambiato, da parte di una società che non capisce che ciò è impossibile; mentre al contrario, dall’altra parte, i problemi intervengono proprio nell’assenza di una modellizzazione in ciò che si può o non si può fare.

Massimo Iiritano: Facevi riferimento all’intervento di Caterina, studentessa del terzo anno di liceo classico, una delle nostre giovani tutor nei percorsi di filosofia con i bambini della scuola primaria. Una delle più attente, che ci ha anche seguito con costanza e attenzione nei laboratori di filosofia civile condotti in libreria, di pomeriggio, laddove abbiamo provato a sperimentare proprio questo difficile e dimenticato dialogo tra generazioni, a partire dal terreno comune delle nostre fragilità. Troppo spesso infatti il dialogo è spezzato, nelle famiglie, a scuola. Troppo spesso interviene in noi adulti il pregiudizio, questa falsa modellizzazione del dover essere, come dicevi tu, che ci impedisce di accettare e di accogliere i ragazzi per quello che invece semplicemente sono. Nel confronto tra adolescenti e bambini, di cui Caterina raccontava, avviene il prodigio di questo risorgere del dialogo, nel luogo della massima spontaneità e immediatezza: che è anche l’unico luogo fertile per una vera empatia, capace di creare fiducia e di aprire quindi canali autentici di comunicazione. Quelli che noi docenti e genitori spesso non siamo capaci di aprire, purtroppo.

Michela Marzano: Il problema che si pone quando si parla di fragilità, infatti, è che nonostante che sia vero per tutti che ognuno di noi ha un suo valore intrinseco, se noi non lo sappiamo, se non lo capiamo, è perché nessuno ce lo insegna veramente. Se uno si limita cioè a insegnare Kant ma non ce lo comunica, non ce lo fa capire, perché non ci accompagna attraverso Kant alla scoperta del nostro valore, noi possiamo passare tutta la nostra vita immaginando che il rispetto, e poi anche l’amore, lo si debba “meritare”, modificando ciò che si è. E così si rischia di non avere consapevolezza del proprio valore, di ciò che si è. Consapevolezza del fatto che andiamo bene così come siamo. Anche semplicemente perché non possiamo essere diversamente da come siamo. E questa non è una forma di impotenza, ma semplicemente significa prendere atto della realtà. Anche se ciò ci riesce difficile, vivendo in un mondo ipervolontaristico, in cui ciò che si vuole si deve pure ottenere. E invece la barriera del reale fa ostacolo all’onnipotenza della volontà e noi dobbiamo prendere atto della consapevolezza dei nostri limiti. Tanto è vero che ognuno di noi è caratterizzato molto di più da ciò che non si ha e da ciò che non si è, piuttosto che da ciò che si ha e da ciò che si è. E crescere significa imparare a convivere con l’assenza, con ciò che non si è e che non si ha.

Una delle definizione più belle ci viene data da Camille Claudel, che in una lettera a suo fratello scrisse “c’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita”. Ognuno di noi è caratterizzato da qualcosa che manca, da qualcosa di assente, e che ci fa male, ma è precisamente questo ciò che tutti noi condividiamo con gli altri. Perché è proprio questo il significato della condizione umana. Avere consapevolezza della propria dignità consiste nell’avere consapevolezza del fatto che il proprio valore è lo stesso anche se manca qualcosa, anche se si sarebbe voluto essere altro. In genere ognuno di noi sin da bambino si confronta con quello che sono gli altri o con l’immagine di sé che gli altri hanno. Anche perché i genitori e gli insegnanti proiettano dinanzi a noi questa immagine ideale del sé, fatta di aspettative e frustrazioni, dopo di che si fa difficoltà a convivere con i propri vuoti e le proprie mancanze, proprio perché ci si sente responsabile di questi vuoti. E qual è il problema che c’è dietro a tutto ciò. È che se io non vengo accompagnato alla scoperta della consapevolezza del mio valore, io non avrò mai fiducia in me. La fiducia in sé è il risultato della consapevolezza del proprio valore. E se noi non abbiamo fiducia in noi stessi non potremo mai aver fiducia negli altri e creare un rapporto con l’altro: siano essi i figli, i genitori, il proprio compagno, gli insegnanti. Non c’è rapporto senza fiducia. E non c’è fiducia se non c’è possibilità di abbandonarsi. Ma io non posso abbandonarmi all’altro se non ho fiducia in me. Una delle definizioni più belle della fiducia ci viene da Simmel, che disse “si crede in una persona senza che questa fiducia sia giustificata da qualunque prova della sua affidabilità e spesso in presenza della prova contraria”

Massimo Iiritano: Non c’è rapporto senza fiducia. Questo vale come dici bene anche nelle relazioni educative, quando queste vogliano appunto porsi come relazioni dialogiche. Si tratta di un punto fondamentale della nostra stessa identità, come Amica Sofia: la promozione e la ricerca delle pratiche di filosofia dialogica nella scuola e nella società. Poiché non c’è scuola senza società; e non può esserci società senza che si possa avere ancora la speranza di stimolare e costruire in essa relazioni dialogiche. “Comunità di cura” la definisce Eugenio Borgna: questo dovrebbe essere l’ideale (utopia forse?) della nostra missione educativa. E al tempo stesso la grande, fondamentale missione “politica” della filosofia, oggi quanto mai necessaria, urgente direi. Ma quanto è difficile oggi avere fiducia e generare fiducia nell’altro! Nella società delle “passioni tristi”, laddove il futuro è minaccia, il vicino è avversario, il prossimo è straniero.

Michela Marzano: La fiducia è un salto nel buio: io mi abbandono, io mi affido. Non c’è rapporto tra insegnanti e alunni se non c’è fiducia. Se i ragazzi non avranno fiducia nei loro insegnanti, questi non potranno mai far passare ciò che spiegano e che dicono e viceversa. Perché se non son gli insegnanti ad aver fiducia negli studenti è difficile poi che gli studenti abbiamo voglia di mostrarsi all’altezza della fiducia che non viene ricevuta. Ma per potermi abbandonare io devo correre il rischio del tradimento. Perché può tradirci solo una persona in cui noi abbiamo fiducia. E quindi come faccio ad avere fiducia nell’altro se non ho consapevolezza del mio valore, di quel qualcosa che non può essermi tolto, neppure da un tradimento possibile? La consapevolezza del proprio valore è ciò che ci permette di scommettere negli altri e di creare relazioni.

Ma per accedere a questa consapevolezza, che è anche la base che ci consente di avere relazioni con l’altro, c’è bisogno di qualcuno che ci accompagni verso la sua scoperta. Come? Attraverso la via del “riconoscimento” concetto elaborato da Axel Honnet, in un libro dal titolo “La lotta del riconoscimento”, in cui spiega come questo sia il concetto chiave per strutturare la fiducia in sé e le relazioni con gli altri. Tutto nasce dall’amore, che non è altro che il riconoscimento di ciò che siamo indipendentemente da qualsiasi aspettativa. E questo è possibile solo se noi ci rapportiamo con adulti che ci riconoscono per quello che siamo e che non ci chiedono altro. Io non posso accettarmi per quello che sono se non sono stato riconosciuto per quello che sono. Il compito degli adulti è proprio quello di accompagnare i più piccoli alla scoperta del proprio valore, proprio attraverso l’accettazione di quello che sono e non di quello che sarebbero dovuti essere sulla base delle nostre aspettative.

Tempo fa nel semestrale dell’associazione «Amica Sofia», che curo da qualche anno, abbiamo pubblicato un intenso dialogo fra Michela Marzano e Massimo Iiritano, due studiosi e filosofi che, in tempi e modi diversi, si sono interrogati sul tema dell’adolescenza, interpretato non come la prosecuzione dell’età bambina, ma come la scoloritura di un’immagine e di un volto infantile destinato a sparire nelle pieghe increspate dell’adolescenza. Quest’età spesso si trova a essere una zona grigia che, in alcuni casi, viene a coincidere con il tempo dello sforzo, della fragilità, dell’illusione a volte disillusa, dell’amore che carica o scarica di senso i momenti e le parole, della bellezza vista come una sfida inarrivabile. L’adolescenza, riflettendo sull’articolo che segue, si traduce in un mito controverso, pronto a sfaldarsi al primo scoglio. In ogni adolescente si rivive il dubbio archetipico di Elena, che, rifugiatasi – nel tempo dell’epica – nella sicurezza e nel potere della bellezza, arriva a desiderare, nella tragedia, di non esser mai stata bella. La scissione del sé, raccontata nelle varie trascrizioni del mito di Elena che la trasformano perfino in un simulacro, può essere letta a mio giudizio con la fragilità della rappresentazione del corpo, che è sempre succube degli sguardi esterni, a iniziare dal fatto che l’immagine di noi stessi non coincide, quasi mai, con quella che vorremmo, in uno sfasamento fra realtà ed ekphrasis. La fragilità del sé adolescente è ancor più acuita dalla cosiddetta «realtà aumentata» dei media, che fanno del corpo non il luogo dell’incontro, ma il campo dello scontro con gli altri. Le riflessioni di Marzano e Iiritano ci aiuteranno ad approfondire questo tema così complesso e denso. Dorella Cianci, direttrice della rivista “Amica Sofia Magazine” (www.amicasofia.it)


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