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Il riformismo non basta più

L'editoriale di Stefano Zamagni che apre il numero di giugno. «Il Terzo settore ha bisogno di idee che orientino le azioni. Di un progetto di trasformazione» che ci faccia uscire dalla “aporofobia” «la paura mista a disprezzo del povero che, di conseguenza, viene lasciato in balia del proprio destino»

di Stefano Zamagni

Siamo nel bel mezzo di una trasformazione di portata epocale. come poche ve ne sono state nel passato. La storia ci insegna che quando una società si trova ad affrontare un punto critico – l'ultimo è stato nel 2001, quando ci fu il passaggio dalle tecnologie settoriali a quelle trasversali con l'ingresso sul mercato di iphone e ipad – nascono paure.

La paura, che è un potente aggregatore di consenso politico, è usata da chi interpreta l’agire politico in chiave meramente strumentale per orientare consenso a breve termine. La paura, però, ha bisogno di essere oggettivata. Si cerca allora un riferimento per poter addossare a certe categorie di persone l’origine della stessa paura. Il capro espiatorio, oggi, sono gli ultimi.

Viene così intensificata la paura che gli ultimi possano minacciare i penultimi.

In altre parole, chi da una posizione di ceto medio o medio basso scivola, in una situazione di precarietà estrema perdendo il lavoro, ammalandosi o perdendo la casa o ancora sovraindebitandosi entrando così a far parte della categoria dei penultimi. Si viene a determinare una sorta di lotta fra penultimi e ultimi, con i penultimi che temono che una considerazione offerta agli ultimi possa ulteriormente aggravare la loro condizione. È un vicolo cieco.

Questa chiave di lettura spiega anche la logica del reddito di cittadinanza, che non riguarda gli ultimi, ma i penultimi. Gli ultimi sono esclusi dal beneficio del Reddito di Cittadinanza, pensiamo a chi dorme per strada che non ha accesso alla misura. Un altro esempio sono i migranti.

Ecco perché propongo di usare, per questa chiave interpretativa, un termine greco: aporofobia. Un termine che può sembrare strano, ma è efficace: aporos, in greco, è l’abbandonato; l’aporofobia è non solo la paura, ma una paura mista a disprezzo del povero che, di conseguenza, viene lasciato in balia del proprio destino. Gli ultimi non votano, non partecipano. Papa Francesco ha introdotto per loro questo concetto: “scarti umani”. Gli “scarti umani” sono persone che non entreranno mai in nessun processo produttivo, né decisionale.

Questa situazione, oltre che per ragioni etiche, è pericolosa dal punto di vista economico e sociale. Lungo queste tre linee — etica, economia, società — il Terzo settore si gioca tutto, poiché è evidente che la strategia di tenere buoni i penultimi, per averne il consenso, attaccando gli ultimi, che non servono per il consenso, è di corto respiro e non aiuterà nemmeno i penultimi. Quando i penultimi se ne renderanno conto, la destabilizzazione sociale crescerà, come in parte sta già avvenendo proprio sul reddito di cittadinanza. Dal punto di vista economico dobbiamo far ripartire verso l’alto l’ascensore sociale, mentre il Governo lo sta facendo solo scendere verso il basso. Dal punto di vista sociale, è cruciale che il Terzo settore non si senta soltanto sotto attacco (lo è, ovviamente), ma cominci a capire perché è sotto attacco avanzando un progetto di trasformazione dell’intera società. Nelle fasi di passaggio d’epoca, come quella attuale, la prospettiva riformista non è più sufficiente. Il riformismo va bene per tempi ordinari, non per tempi straordinari.

Perché parlo di un progetto, non di un programma di trasformazione? Un progetto è il quadro in cui, successivamente, si declineranno i programmi, ma in questa fase dobbiamo tener conto che il passaggio d’epoca non riguarda solo il lato produttivo, bensì l’intera organizzazione sociale. Abbiamo bisogno di idee che orientino le azioni. Ritengo che questo progetto di trasformazione debba avere alcuni punti imprescindibili.

Primo punto. Bisogna a affermare l’urgenza di una politica non demofobica contro gli ultimi e i corpi intermedi. Questa politica ha surrogato il necessario dialogo con forme di apparente democrazia diretta.

Secondo punto. Bisogna avere il coraggio e l’intelligenza di passare dall’economia politica all’economia civile. Con la trasformazione in atto il paradigma dell’economia politica non è più in grado di risolvere i nodi critici (disuguaglianze, processi di oligopolizzazione, crisi nanziarie) del nostro sistema. Se ne sono accorti anche gli economisti americani che, nel gennaio di quest’anno, hanno fondato un’associazione alla quale aderiscono settanta professori, capeggiata da Dani Rodrick dell’Università di Harvard, che ha un nome — Economics for Inclusive Prosperity — e un manifesto ispirati all’economia civile.

Terzo punto. Bisogna avere il coraggio di capire che anche il modello di welfare va cambiato. Non bastano le riforme, serve un welfare generativo, che al contrario dell’assistenzialismo e del welfare redistributivo dia alle persone la possibilità ricostruire e reinserirsi nel processo del valore.

Quarto punto. Bisogna prendere posizione sulla politica estera, spendendo parole chiare che dicano come sovranismo e nazionalismo sono vie di estrema pericolosità per l’Italia, che non se le può permettere. Non possiamo fare la fine del Venezuela.

Quinto punto. Bisogna dire, sul fronte della digitalizzazione e della rivoluzione tecnologica, da che parte si sta. Stiamo dalla parte del transumanesimo e della sua idea di arrivare alla coscienza artificiale, colonizzando i beni relazionali e i sentimenti morali? O stiamo dalla parte del progetto neo-umanista che, mentre riconosce i grandi vantaggi dell’Intelligenza artificiale, ritiene la coscienza artificiale un progetto nefasto per la libertà, l’autonomia, la dignità e la responsabilità della persona?


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