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Cooperazione & Relazioni internazionali

Se tutti chiudono i confini che succede a chi resta in mezzo?

Non solo il Mediterraneo. Il flusso migratorio continua con numeri piccoli ma costanti anche sulla rotta balcanica. Ma se Croazia, Ungheria e Slovenia chiudono i confini, i profughi restano bloccati in Bosnia, ma non spetta a questo Paese gestire l’emergenza

di Anna Spena

Pattuglie Italo – Slovene lo scorso lunedì hanno iniziato a setacciare i confini. Secondo una dichiarazione rilasciata dalla polizia slovena l'obiettivo principale della collaborazione transfrontaliera tra le forze di polizia è combattere il movimento secondario nell'immigrazione clandestina. Al 29 giugno, la polizia slovena ha registrato 5.306 attraversamenti illegali, rispetto ai 3.612 del 2018.

In Italia l’attenzione mediatica è tutta concentrata sui recenti fatti di Lampedusa e sulla comandante Carola Rackete che con la Sea Watch 3, è entrata, senza autorizzazione, nel porto per portare in salvo 42 persone. Ma mentre i porti sono chiusi alle ong, continuano gli sbarchi di piccole imbarcazioni e il fenomeno migratorio – che non è un’emergenza, siamo infatti ben lontani dai numeri degli scorsi anni – non si ferma.

La questione vera è come vivono i profughi rimasti bloccati in un limbo dove è impensabile tornare indietro ma diventa difficile andare avanti? E le conseguenze di questo fatto, almeno per quanto riguarda la rotta balcanica, ricadono tutte su un Paese piccolo, la Bosnia Erzegovina, che conta appena tre milioni e mezzo di abitanti. I confini della Croazia, della Slovenia e dell’Ungheria sono chiusi. E nel 2018 sono stati oltre 33mila i profughi arrivati in Bosnia. 9.000 si sono stabiliti nella zona di Bihac, città di 50mila abitanti, sperando di attraversare il confine con la Croazia e quindi con l'Europa occidentale.

«Quello che l’Europa sta facendo», spiega Giovanni Vale, corrispondente da Zagabria dell’osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, «è delegare un problema europeo ad un paese che non ha gli strumenti per gestire la situazione. Questa cosa è ingiusta, è una scelta sbagliata. In Bosnia i diversi livelli istituzionali si fanno la guerra tra loro, è impensabile che possano gestire questo flusso di persone».

L'unione europea ha annunciato che fornirà 14,8 milioni di euro per soddisfare le esigenze dei migranti e dei rifugiati bloccati in Bosnia.

«Ma», continua Giovanni Vale, «non può essere solo una questione economica. Paesi come Bihać, al confine con la Croazia, sono al collasso. E se prima la popolazione locale si è dimostrata aperta e disponibile all’accoglienza, adesso le cose stanno cambiando. Il cantone di cui Biach è capoluogo, Una-Sana, ospita 5mila profughi in strutture d’emergenza. Più volte è stato chiesto al governo centrale di Sarajevo di farsi carico almeno di una parte, e più volte quello stesso governo si è rifiutato».

È di qualche giorno fa la notizia dell’apertura di un nuovo campo Vucjak che ospita 700 persone. «Un campo che non è adatto ad accogliere persone», spiega Giovanni Vale, «perché è stato costruito su una ex discarica. I migranti vogliono comunque provare ad attraversare il confine. E di notte provano a passare per la foresta e arrivare in Croazia. Vengono rispediti indietro anche per 15, 20 volte. Ma alla fine un modo per entrare lo trovano: è impossibile controllare un confine lungo 931 chilometri».


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