Welfare & Lavoro

Vivere fuori famiglia: “cari operatori, adesso ascoltateci di più”

Sei lettere aperte ad altrettante figure professionali che hanno un ruolo cruciale nei percorsi di chi vive fuori dalla propria famiglia di origine, in affido o in comunità. Giudici, assistenti sociali, psicologi... i ragazzi prendono la parola. Duri ma giusti nelle loro critiche, richieste e raccomandazioni

di Sara De Carli

Giovedì 27 giugno, mentre esplodeva il caso “Val d’Enza”, a Milano si svolgeva la prima conferenza lombarda del Care Leavers Network . Titolo “L’accoglienza etero-familiare e il leaving care visti con gli occhi dei ragazzi e dei professionisti del settore: spunti di riflessione e sollecitazioni per i decisori”. I care leavers sono ragazzi che hanno vissuto parte della loro vita fuori dalla loro famiglia di origine, accolti in comunità o in una famiglia affidataria, e che alla soglia dei 18 anni vedono – per legge – terminare i percorsi di accoglienza. I prosiegui amministrativi esistono ma sono sempre più rari: in sostanza a questi ragazzi neomaggiorenni, viene chiesto ciò che nessun genitore pretende dal proprio figlio il giorno in cui compie i 18 anni, ovvero di essere adulti autonomi, da un giorno all’altro. Mantenersi, vivere da soli, pagarsi un affitto. Ciò perlopiù senza nemmeno il sostegno di reti e relazioni significative, senza gli affetti familiari, amicali e territoriali.

Diverse realtà, da diverso tempo, lavorano perché ci sia maggiore attenzione a questo passaggio verso l’età adulta, ad esempio a giugno 2018, con il Fondo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale, è stato approvato un fondo sperimentale a favore dei neomaggiorenni in uscita dai percorsi di accoglienza, con 15 milioni di euro per il triennio 2018/2020: il progetto sperimentale parte oggi, con una prima riunione a Firenze dei soggetti coinvolti.

Il “Care Leavers Network Italia”, coordinato da Diletta Mauri, è un network nazionale promosso dall’associazione Agevolando in collaborazione con il CNCA (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) e con il contributo del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali: la sua peculiarità sta nel fatto che il Network è composto direttamente da ragazzi e ragazze tra i 16 e 24 anni che vivono o hanno vissuto parte della loro vita “fuori famiglia”, che vengono coinvolti in un percorso di partecipazione e cittadinanza attiva. Dopo una prima conferenza nazionale, il network sta ora mettendo radici in varie regioni, con gruppi di lavoro territoriali. In Lombardia il percorso ha coinvolto una ventina di ragazzi, accolti in otto diverse realtà, di tre province, coordinati da Nadia Agnello.

Sette di loro giovedì scorso hanno portato la loro testimonianza, leggendo sei emozionanti lettere rivolte a ad altrettanti interlocutori importanti per il loro percorso di vita: un giudice, un’assistente sociale, un responsabile dei servizi sociali, un’equipe di educatori, una psicologa. Tutte le lettere sono state accompagnate da alcune raccomandazioni scritte dai ragazzi. «Non potete capire che cosa stiamo vivendo, ma provate a mettervi nei nostri panni e provate ad aiutarci il più̀ possibile, ascoltandoci e standoci accanto. Sarebbe bello sentirvi chiedere spesso “come stai” e “come va”, è importante sapere che vi interessate a noi! Spesso siete il nostro unico punto di riferimento. Fateci sentire persone e non numeri», hanno detto. Carlo, in particolare, presentando il percorso fatto, ha affermato: «Se oggi possiamo vivere una vita bella, che ci piace, è grazie a voi. Prima di incontrarvi una vita così non ce la immaginavamo». Ai professionisti dei servizi, i ragazzi chiedono più ascolto e più presenza. Più confronto. E anche che i loro genitori siano accompagnati in un percorso analogo: «mentre io ho lavorato molto su me stessa mi aspettavo che anche i miei genitori lavorassero su di loro, purtroppo non è andata così. I miei genitori avevano sicuramente delle difficoltà e non potevo pretendere che da soli le risolvessero; come ho avuto bisogno io di un sostegno, anche per loro sarebbe stato necessario».

Quelle che seguono sono due delle sei lettere (il documento integrale è in allegato in fondo all'articolo). Nulla è di fantasia o inventato: le esperienze di ciascuno sono state riunite per comporre una storia.

«Caro Giudice,

ho avuto una vita abbastanza complessa e 9 mesi fa sono entrato in comunità. Ho conosciuto l’assistente sociale e molti educatori ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare te. All’inizio non è stato semplice accettare la tua decisione, anche perché mi piaceva la libertà che avevo quando ero a casa. Con il tempo ho capito che il percorso in comunità è stato la mia salvezza, sì, la mia salvezza! E così ho chiesto il prosieguo amministrativo perché era necessario per me, non avevo altre possibilità.

Ho affidato tutta la mia speranza nella lettera precedente per chiederti il prosieguo, ma la tua risposta è stata negativa. Tra pochissimo tempo rimarrò senza un posto dove vivere dato che sto per compiere 18 anni a breve. L’unica domanda che mi pongo è perché?! Perché mi hai collocato in comunità se poi avevi intenzione di non continuare ad investire su di me e sul mio futuro? Perché non mi hai mai incontrato? Perché ad altri hai dato una possibilità e a me no?».

«Cara Assistente Sociale,

in questi tre anni in cui sono stato in comunità sei già la quinta persona che mi viene presentata in questo ruolo…Chissà se quando riceverò una risposta sarai ancora tu a seguire il mio caso?! Ci tengo a dirti che mi piacerebbe i nostri incontri fossero più frequenti, ad esempio vederci ogni 2 mesi. Ne ho scritte tante di queste lettere, soprattutto per chiedere permessi e autorizzazioni, uno in particolare è stato importante per me: era il mio sedicesimo compleanno e nonostante le difficoltà non mi sembrava incomprensibile la richiesta di tornare a casa per festeggiare… peccato che la risposta sia arrivata troppo tardi: hai forse troppi casi da gestire? O forse i miei sentimenti ed io non siamo abbastanza importanti per te? Le notizie peggiori, che forse avresti dovuto comunicarmi tu, mi sono arrivate dall’ultima persona da cui mi sarebbero dovute arrivare: i miei hanno divorziato e sai come l’ho scoperto? Si è presentata qui mia madre in lacrime incolpandomi di essere la causa della loro separazione.

Mi sarebbe piaciuto un maggiore ascolto e fiducia da parte tua, ad esempio quando ti dicevo che le cose non funzionavano, avrei voluto una maggiore vicinanza in questo momento difficile, almeno tu. A volte penso che il tuo aiuto sia fondamentale per superare queste situazioni, magari la tua presenza ci avrebbe aiutati a gestire meglio quello che è successo. Non sono più un bambino e vorrei che la smettessi di trattarmi come tale, se fosse possibile passare più tempo insieme forse sarebbe più facile capirlo.

Ci penso spesso alle cose che non vanno in questo sistema, non è solo colpa tua se abbiamo percorso insieme una strada così dissestata, ma forse si può fare ancora tanto per renderla meno dura. È difficile entrare nei pensieri e nel cuore di un ragazzo che soffre, ma io non chiedo nient’altro che essere ascoltato da te.

Accanto alle riflessioni e alle raccomandazioni dei ragazzi, ci sono state quelle dei professionisti che lavorano con loro. Attraverso il progetto “Leaving care”, co-finanziato dalla Commissione Europea, SOS Villaggi dei Bambini vuole contribuire allo sviluppo delle competenze di professionisti che lavorano con giovani in uscita da percorsi di accoglienza fuori famiglia, affinché possano prepararli al meglio per una reale partecipazione ad una dignitosa vita adulta all’interno della società in cui vivono. Attraverso un modulo formativo ad hoc, implementato quest’anno in tre città italiane, 40 operatori hanno ricevuto una formazione in accompagnamento all’autonomia. Le raccomandazioni dei “formandi” sono state presentate da Samantha Tedesco, Responsabile Area Programmi e Advocacy di SOS Villaggi dei Bambini insieme a una delle assistenti sociali che hanno partecipato al percorso formativo, Laura Fincato. L’obiettivo è quello di portare queste riflessioni all’attenzione delle Istituzioni presenti al fine di migliorare le politiche e le prassi a livello locale, regionale e nazionale. Un tema ricorrente è la necessità di avere percorsi e progetti specifici per questi ragazzi, estendendo l’accompagnamento fino ai 25 anni, anche in assenza di prosieguo amministrativo, per dare a tutti loro le stesse opportunità dei ragazzi che vivono in famiglia. «All’interno dei Villaggi SOS sono molte le iniziative e i progetti che hanno l’obiettivo di accompagnare all’autonomia i care leavers. Da un lato lavoriamo con i ragazzi aiutandoli ad acquisire le competenze professionali e relazionali necessarie alla transizione alla vita indipendente. Dall’altro lavoriamo con gli operatori dell’accoglienza per consolidare le competenze che mettono al servizio dei giovani in uscita. Il nostro impegno del resto non è rivolto solo ai bambini e ai ragazzi accolti nei Villaggi SOS ma a tutti i care leavers, nessun escluso», ha detto Tedesco.

A queste sollecitazioni hanno risposto Stefano Benzoni, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta, Anna Maria Caruso, Garante dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune di Milano, Liviana Marelli, Referente Cnca per Infanzia, Adolescenza e Famiglie, Francesca Codazzi e Maria Carbone, referenti del gruppo tutela minori e famiglia del Croas Lombardia, Silvia Zandrini, coordinatrice servizi sociali 2°liv. e specialistici settore politiche sociali – Area territorialità, Comune di Milano.


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