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Cosa accade al movimento per i beni comuni?

La raccolta firme per la legge di iniziativa popolare Rodotà sui beni comuni; l’affermazione dei “beni comuni” nei movimenti sociali, nelle scienze sociali e perfino nella politica istituzionale ma, allo stesso tempo, gli infiniti processi di privatizzazione e mercificazione di tutto ciò che è “comune”. Tra inevitabili limiti e contraddizioni i commons mettono in fermento la società

di Paolo Cacciari

Manca un mese alla conclusione della campagna per la raccolta delle firme – ne servono 50.000 – per la legge di iniziativa popolare sui beni comuni elaborata a suo tempo dalla Commissione Rodotà (vedi generazionifuture.org). L’iniziativa presa da un cospicuo gruppo di giuristi delle università italiane ha avuto il merito di riaccendere l’attenzione sul grande tema dei “beni comuni”. In Italia viviamo una situazione paradossale. Il sintagma “beni comuni” è entrato nel lessico usuale dei movimenti sociali, delle scienze sociali (persino di quelle economiche – dopo gli studi di Elinor Ostrom sulle common-pool resources, che pure non coprono l’intera possibile gamma dei commons) e della stessa politica, ma, nello stesso tempo, procede senza freni il processo di privatizzazione selvaggia, mercificazione e svendita di tutto ciò che è “comune” (vedi, da ultimo, la Finanziaria 2019 con il Piano straordinario affidato alla Agenzia del demanio per la messa all’asta di 1.500 immobili). Segno evidente che qualche cosa non funziona.

Come ridare fiato e gambe al movimento per i beni comuni?

Il concetto dei “beni comuni” non riesce (ancora) a mordere la realtà. Eppure non vanno dimenticati i significativi successi che hanno aperto varchi sul muro dell’egemonia liberomercatista. Ad iniziare dalla conclusione dei lavori della Commissione ministeriale presieduta da Rodotà, istituita dal secondo governo Prodi (2007), con la formulazione – appunto – di una proposta di legge quadro per una parziale modifica del Codice Civile (1942). Ricordiamo tutti il grande risultato del Referendum del giugno del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali e le successive iniziative contro i tentativi di azzerarlo. Ricordiamo anche la sentenza del 2012 della Corte di Cassazione che riconosce “beni comuni” le valli da pesca della Laguna di Venezia, a seguito di una pluridecennale vertenza delle associazioni ambientaliste. Ricordiamo la importantissima legge n.168 del 2017 sui Domini Collettivi (ex usi civici) che riconosce il diritto delle Comunità originarie di autogovernare le proprie terre (che non sono poche: l’11% del suolo agricolo nazionale). Ricordo l’esperienza straordinaria dell’Amministrazione comunale di Napoli con la ripubblicizzazione dei servizi idrici e il riconoscimento ad uso civico urbano di una serie grandi complessi immobiliari (siamo giunti a 9). Ma vanno ricordati anche i 184 comuni che hanno approvato regolamenti e patti di collaborazione sul modello dell’“amministrazione condivisa” tra comuni e organizzazioni della cittadinanza attiva, in attuazione del principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale. Da ultimo ricordiamo che alcune Regioni (Toscana) hanno inserito nel loro Statuto il concetto dei beni comuni e altre (Lazio) hanno approvato delle leggi specifiche. La questione – per chi crede nella sfida dei beni comuni – è quindi questa: come ridare fiato e gambe al movimento per i “beni comuni”? Credo che la risposta sia evidente, anche se non semplice. Primo, servirebbe lavorare per “rendere logicamente afferrabile un concetto” (quello dei commons) che altrimenti – come ha scritto più volte Paolo Maddalena – rischia di rimanere vago, generico e persino equivocabile. Secondo, servirebbe cominciare a “giurisdizionare” qualche bene comune, a cominciare dall’acqua, la cui proposta di legge di iniziativa popolare è giunta finalmente in Parlamento, ma non solo. Pensiamo alle lotte in corso in tante parti del mondo contro l’inserimento di barriere di accesso ad Internet, contro la brevettabilità del genoma umano, contro la confisca dei semi e delle terre agricole da parte dell’agrobusiness, contro i monopoli farmaceutici… ma anche alle lotte per la riapertura di immobili abbandonati o utilizzati per speculazioni.

Le diverse interpretazioni del concetto dei “beni comuni”

La difficoltà di transitare da un discorso generale sui beni comuni a una concreta politica per i beni comuni è dovuta alle diverse interpretazioni che vengono date del concetto dei “beni comuni” (con conseguenti diverse definizioni a seconda che venga posto l’accento più su un aspetto o su un altro) e alla oggettiva eterogeneità dei beni, dei servizi, delle res cui ci si riferisce. Emergono così proposte di diverse tassonomie, diverse categorizzazioni che portano a diverse catalogazioni. É evidente che tutelare un bene comune naturale planetario (i“Global Commons”) come il clima o la biodiversità o l’aria e l’acqua (i servizi eco sistemici: the life support sistem) comporta la predisposizione di strumenti giuridici e tecnici diversi da quelli che servono per preservare un bene cognitivo immateriale (cultural commons) come lo sono i saperi, la memoria collettiva, la creatività artistica… Diverso pensare a come meglio tutelare un ecosistema locale o una infrastruttura artificiale (social needs). Cambiano le scale, cambiano le caratteristiche e i meccanismi intrinseci di funzionamento, i principi rigenerativi. Difficile quindi – impossibile, io penso – trovare regole di governo e sistemi di gestioni appropriati uguali per qualsiasi bene comune. Ma è pur vero che la forza (per me rivoluzionaria) del concetto di commons è “unica”, culturale, prima ancora che giuridica, economica, politica. Dobbiamo pensare ai commons come principio generale d’organizzazione della società, come modo di produzione, come visione dei rapporti tra le persone, le cose, il pianeta, il cosmo. I commons sono un concetto che investe la filosofia politica e la filosofia del diritto. I commons sono capaci di dare un senso etico alla convivenza. Danno “un senso al mondo” e indicano un modo di “stare al mondo” totalmente diverso – opposto – all’antropologia dell’homo oeconomicus su cui si fonda l’ideologia capitalistica. I commons indicano un sistema di relazioni che si instaurano tra le persone nella gestione del loro bene stare assieme. Sono “comuni” perché creano legami di solidarietà. Presuppongono una responsabilità collettiva delle comunità di riferimento. Un loro uso condiviso: cum-munus. Prima di essere delle “cose” i beni comuni sono un sistema di relazioni basato sulla condivisione, sulla cooperazione, sulla reciprocità. I commons sono un modo di essere della società che fa propri i principi della sostenibilità sociale (equità e giustizia) e ambientale (rigenerazione della vita). La sfida è alta! Siamo oltre l’utilitarismo antropocentrico e ogni forma di dominio. Non solo oltre il liberismo capitalista e lo stesso capitalismo. In questo senso penso che i commons abbiano la forza di risignificare l’intero pensiero politico della sinistra. Fuori da questo quadro di ampio respiro, i beni comuni perdono la loro efficacia politica, la loro capacità mobilitante, trasformativa sistemica, anti o post capitalista. Credo che si debba pensare ai beni comuni non solo per la loro importanza, utilità e funzionalità ai fini di rendere effettivo “l’esercizio dei diritti fondamentali e il libero sviluppo della personalità“ (come recita la proposta di legge Rodotà), ma, essenzialmente, per il fatto che attorno ad essi si formano comunità di persone responsabili che si attivano direttamente per prendersene cura. In definitiva è proprio la modalità di gestione “capacitativa” (per usare Sen) di autogoverno delle comunità che determina l’essere “bene comune” di un commons. Altrimenti i beni comuni rimangono incastrati dentro la categoria dei beni pubblici: “beni e servizi” da iscrivere nei programmi dei governi e – quando va bene – da collocare in cataloghi patrimoniali speciali. Ma così saranno sempre le istituzioni statali a stabilire quanto è davvero importante quello o quell’altro “bene comune” e a decidere come e chi lo dovrà fornire.

Commons, cioè “comunanze”

La usuale traduzione letterale di commons come “beni comuni” rischia di contribuire a portarci inconsapevolmente fuori strada. Prima di essere delle res (risorse), i commons sono un sistema di relazioni inseparabili tra le persone, tra le persone e i doni della natura (ecosystem services), tra gli strumenti e i sentimenti. Come scrivemmo in un libro pionieristico (La società dei beni comuni, Carta e Eds, 2010) sarebbe più giusto tradurre commons con “comunanze” (comunidades, in spagnolo). Così la pensano i principali teorici e sostenitori dei commons negli US (Davide Bollier, La rinascita dei commons. Successi e potenzialità del movimento globale a tutela dei beni comuni, Stampa alternativa, 2014; Silvia Federici, Reincarnare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre Corte, 2018)), in Europa (David Bollier e Silke Helfrich, The Wealth of the Commons. A Wrld Beyond Market & State, The Commons Strategies Group, 2012; Massimo De Angelis, Omnia Sunt Communia. On the Commons and the Transformation to Postacitalism, Zed Books, London, 2017) e in Italia (Alberto Magnaghi, Il territorio come bene comune, Fi University Press, 2012). Ciò riaffermato – insisto, al fine di non sterilizzare l’idea estensiva dei commons come disegno di una società basata su relazioni umane non utilitaristiche – vediamo ora come si può incominciare a far precipitare tali principi nelle dinamiche politiche concrete. La rivendicazione dei beni comuni da parte di una galassia di movimenti è la leva del possibile cambiamento. Innanzitutto questi gruppi di persone, abitanti, lavoratori, “consumatori”… chiedono che l’oggetto del loro contendere venga messo “fuori mercato”, demercificato, sottratto alle logiche della massima redditività, produttività e profittabilità. Venga, cioè, messo in discussione il peso del “terribile diritto” (Rodotà) della proprietà esclusiva e assoluta: il dominus sulle cose. Attraverso il diritto di proprietà gli esseri umani hanno misurato e codificato il rapporto che si instaura tra sé e le cose che li circondano e tra sé e il resto della collettività. Ricordo che l’art. 832 del Codice Civile, il fulcro della regolazione statale dei poteri fondamentali in una società capitalista, recita (ancora): “Il proprietario ha il diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. Nemmeno la guerra di liberazione antifascista e settanta anni di Costituzione sono riusciti a scalfire questa norma! Come scrisse Stefano Rodotà, quindi, nel futuro “Il grande terreno di battaglia sarà la proprietà” (I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, la scuola di Pitagora, editrice, 2018). Bene. Non è certo né indifferente, né irrilevante il tipo di regime proprietario e il titolo di appartenenza dei beni. Limitare, “costituzionalizzare”, relativizzare i diritti esclusivi della proprietà sulle cose è certo un grande passo avanti (in tal senso ogni proposta di modifica del Codice Civile dovrebbe essere ben accolta). Sarebbe da sciocchi non tenerne conto! É quindi necessario cambiare l’ordinamento giuridico per riuscire a preservare i “beni comuni” sancendone la loro inalienabilità, indivisibilità, inusucabilità, perpetua destinazione d’uso… a favore delle collettività, presenti e future. É ovvio, che per ottenere un maggiore controllo sull’uso dei questi beni e servizi (materiali o immateriali, naturali o artificiali, locali o globali…), che le popolazioni individuano come necessari al loro benessere, è meglio che il titolo giuridico di appartenenza sia “pubblico”, collettivo, partecipato, vincolato… Ma non basta.

Non basta una nuova categoria giuridica

La questione – a mio modo di vedere – non è se i beni comuni siano da considerarsi o no pubblici (cioè nè privati, né res nullius). Sono sicuramente pubblici! Ma se la formula migliore di possesso pubblico (cioè collettivo) debba essere sempre e solo quella statale (cioè gestita da una persona giuridica di diritto pubblico) o non anche – e di più – quella delle comunità di riferimento del bene e del servizio pubblico capaci di autogestirseli direttamente (anche queste sono “comunità politiche”, cioè istituzioni formate da persone fisiche liberamente associate) con modalità che stabiliscano la inalienabilità, la preservazione nel tempo dei benefici, il libero accesso condiviso senza discriminazioni, ecc. In questo senso ciò che conta non è tanto la definizione giuridica del bene o del servizio quanto le “regole d’uso”. Il problema che pongono i sostenitori dei commons è che per difendere i beni comuni non basta inserirli nella categoria giuridica dei beni di proprietà pubblica. Occorre rafforzare, rendere effettivo il loro “uso pubblico”. Lo stato e i suoi enti (lo stato come personalità giuridica a cui lo “stato comunità” ha affidato i compiti di gestione del bene comune) risponde a logiche politiche che – quando va bene – sono quelle della democrazia rappresentativa e della volontà delle maggioranze pro-tempore. E sappiamo bene che – negli ultimi trent’anni almeno – l’“interesse pubblico” generale che i parlamenti e i governi legittimamente hanno proclamato coincide con il buon funzionamento dell’economia di mercato. Ad esso sono stati resi funzionali (sacrificati) anche i “beni comuni”. Il pessimo stato della condizione biofisica del pianeta ne è la più tragica delle dimostrazioni. Secondo l’interpretazione corrente delle maggioranze (liberali o socialdemocratiche che si sono alternate nei governi dei “paesi avanzati”, poco importa) la “finalità sociale” della proprietà (di qualsiasi proprietà) è quella di produrre più utilità economica possibile. É in corso un colossale processo di privatizzazione e mercificazione e di creazione di sempre nuove enclosures, di “permanente accumulazione primaria” (Rosa Luxemburg), resa possibile proprio attraverso l’intervento attivo degli stati (vedi legislazione su sementi, proprietà intellettuale, genoma umano, internet, moneta…). Il mito bugiardo borghese dello stato “terzo”, arbitro neutrale, strumento atto a difende i deboli dallo strapotere delle élite si è sgretolato sotto i colpi della globalizzazione e della finanziarizzazione. La teoria e la pratica dei commons sfida il costituzionalismo formale, astratto, dei diritti per fare riferimento alle condizioni strutturali della solidarietà materiale dei bisogni. Oggi sappiamo che gli stati possono vendere il Colosseo e il Ponte di Rialto con un semplice decreto del ministro delle finanze. I beni comuni e i relativi servizi che svolgono – comunque vengano individuati e qualunque sia la loro natura – non sono messi al riparo dalla formale appartenenza al demanio pubblico. Per riappropriarci dei beni d’interesse comunitario dobbiamo quindi tagliare le unghie al privato, ma è necessario anche andare oltre il pubblico-statale. Insomma, oltre le due tradizionali categorie giuridiche legittimate da quando gli stati nazionali borghesi hanno abolito l’idea stessa dei commons, delle res communes omnium, dei beni di tutti e di nessuno. In questo senso caratterizziamo i beni comuni come quei beni che sono indispensabili all’agire dell’uomo nella comunità e ne garantiscono la dignità sociale.

Alcune differenze tra chi sostiene i beni comuni

Qui – è vero – sta una diversità di vedute tra le scuole di pensiero che sostengono i “beni comuni”. Tra chi pensa che la discriminante per avere un bene comune non stia nel titolo formale di proprietà dei soggetti proprietari e/o gestori, ma invece nel sostanziale rispetto degli usi e delle finalità sociali. Ho visto gestioni pubbliche con manager intrisi di aziendalismo (penso a certi direttori delle Aziende sanitarie, a certi Rettori delle università contro-riformate, penso all’AD delle FFSS Mauro Moretti…) e, per contro, vedo fabbriche, imprese, cooperative… autogestite dai lavoratori con finalità non-profit (penso alle fabbriche recuperate come la Rimaflow). Ci sono soggetti privati (formalmente considerati tali) che operano nel rispetto di protocolli, clausole, sistemi produttivi che mirano alla qualità e alla dignità, che non hanno nello scopo e nel motivo del proprio agire la ricerca del massimo profitto e dell’accumulazione, ma il benessere di chi opera e di chi usufruisce del loro lavoro. Si chiama economia solidale trasformativa. La primavera del prossimo anno a Barcellona ci sarà un importante forum organizzato dalla Rete intercontinentale dell’Economia Sociale e Solidale. Ma penso anche alle aperture di papa Bergoglio e alla iniziativa “The Economy of Francesco” in programma anch’essa il prossimo anno. L’economia dei beni comuni mi pare sia l’unica che riesce a contendere spazi all’economia di mercato. Convive necessariamente con esso, ma non va confuso con la “terza gamba”, il Terzo Settore della società di mercato. Indica la possibile fuoriuscita. Non vive né di carità filantropica, né dei surplus di profitti delle imprese di capitale. Tende a fare da sé. Come dice Bergoglio, promuove un’altra idea di ricchezza. La “crisi dello stato fiscale”, prima, ed ora la “trappola del debito sovrano” hanno messo l’iniziativa pubblica in un cul de sac: per finanziare i diritti servono entrate che gli stati sperano di ricavare svendendo i beni comuni. Come dire: per aggiustare gli acquedotti vendo l’acqua. Per evitare che la depredazione della natura, metto un prezzo alle risorse naturali (vedi il mercato dei permessi di emissione e di inquinamento). Per trasferire qualche soldo ai Comuni, costringo i sindaci, sotto la minaccia del “danno erariale” a mettere a reddito i beni comuni. Per finanziare la sanità metto i ticket. E così via. Un circolo vizioso che non credo si possa rompere semplicemente dicendo: “fiscalità generale”. Temo che i margini di sviluppo che il capitalismo riuscì ad ottenere dopo la seconda Guerra mondiale, applicando in Occidente le teorie keynesiane per “trenta gloriosi” anni, sia finito per sempre. Temo che la crisi sia strutturale e che i margini per un nuovo compromesso tra capitale, lavoro e natura (che includa anche le generazioni a venire) siano ormai consunti. Almeno nei paesi di più antica industrializzazione. Per questo penso sia giunto il momento di mettere all’ordine del giorno, senza timidezze, una economia post-capitalista. Una uscita dall’economicismo attraverso il riconoscimento della centralità dei beni comuni (Bawens e Ramos, Re-imagining the Left trought on Ecology of ther Commons: toward a Post-capitalist Commons Transitin, Routledge 12 Jul 2018), a partire dalla gestione diretta delle risorse a livello locale: “Noi vediamo i commons in generale come combinazione di risorse condivise che sono coprodotte e gestite secondo proprie regole e norme da una comunità di parti interessate”. Insomma, a me pare, che per uscire dal dominio del mercato, non sia né logico, né realistico continuare a chiedere che la concretizzazione dei nostri diritti venga pagata dal surplus che il sistema capitalistico di mercato dovrebbe riuscire a creare. A me pare un controsenso immaginare che gli stati riescano a porre la gestione dei beni comuni “fuori commercio” finanziadoli attraverso gli utili che le imprese realizzano sul mercato.

Fuori dalle regole del profitto

Penso che i beni comuni debbano trovare un modo non solo di autogestirsi, ma anche di trovare la sostenibilità economica fuori dalle regole del profitto e della finanza. L’idea del reddito di cittadinanza (Andrea Fumagalli), cioè, della separazione tra reddito e lavoro, é consustanziale a quella della società dei beni comuni. Non a caso il movimento dei commons sostiene che anche il lavoro debba essere considerato un bene comune. Anzi, il lavoro è il principale bene comune a disposizione dell’umanità. Il lavoro è la potenza umana collettiva creativa, esattamente come il sole è l’energia che muove tutti i cicli naturali. Rimanendo a noi, al particolare e limitato oggetto della proposta di legge Rodotà, penso che sia molto utile cercare di aprire un varco nel Codice civile per inventarci “un altro modo di possedere”, a prescindere dal titolo giuridico. L’esempio della legge sui Domini Collettivi (2017) voluta e scritta da Paolo Grossi per i beni cosuetudinari (“comunità originarie” autonormate) mi pare un’ottima soluzione da prendere in considerazione anche per provare ad estenderla ai nuovi, “emergenti” usi civici (collettività locali con autonomia statutaria e gestionale. Esattamente come prevede l’art.43della Costituzione). Credo che dovremmo avere presente anche la convenzione internazionale di Faro (mai ratificata dall’Italia) lì dove si parla di “comunità patrimoniali” che si prendono carico della conservazione e gestione di particolari beni culturali. Dobbiamo quindi inventare un nuovo quadro giuridico in grado di difendere i beni comuni e le strutture capaci di prendersene cura. Ora e sempre. Anche se ora il movimento dei “benicomunisti” (come lo chiama Ugo Mattei) non controlla le maggioranze dei parlamenti. Ora, in attesa di conquistare il Palazzo d’Inverno e di nazionalizzare la proprietà privata (come sembra alludere la proposta di legge dell’onorevole Fassina). Sempre, anche quando saremo al governo e non riusciremo a sfuggire alla tentazione di fare cassa con i beni comuni per rimpinguare i servizi del welfare. Le esperienze dei governi popolari latinoamericani ci dicono molto sulla tragedia delle economie estrattiviste usate “a fin di bene”.

Una rivoluzione antropologica

Il movimento dei commons quando riconosce i diritti delle generazioni future e i “diritti della natura” (vedi Roberto Louvin, L’attribuzione di personalità giuridica ai corpi idrici, DPCE, 2017) attribuendo agli ecosistemi gli stesi diritti degli esseri umani, compie una rivoluzione culturale, antropologica e spirituale (superamento dell’antropocentrismo), prima che giuridica e politica. Declinare giuridicamente un’idea generale di commons non è un passaggio certo facile. Servono competenze giuridiche e volontà politiche. Ha scritto Paolo Maddalena: “Non è possibile offrire una definizione onnicomprensiva di beni comuni, non essendo logicamente ammissibile includere nei limiti di un concetto una idea che, in sostanza, rappresenta tutto ciò che è bello e buono per l’uomo”. Ma questa difficoltà che incontrano i giuristi a mettere in pratica un concetto molto semplice (i beni comuni sono quelli di cui una comunità si assume la responsabilità di prenderseli in cura, perché li riconosce come indispensabili per il proprio benessere) ci può far rinunciare ad aspirare al bello e al buono? La mia sollecitazione nei confronti di tutte le persone che hanno a cuore i beni comuni riguarda il fatto di tener conto che la proposta di legge popolare (con tutti i limiti e le debolezze che contiene) è ormai all’attenzione di migliaia di cittadine e cittadini e che quindi – a mio avviso – per il bene di una battaglia che ci unisce sarebbe utile che raccogliesse il maggior numero di firme possibili. Un fallimento della campagna indebolirebbe tutto il movimento, non solo i suoi promotori.Sono sicuro che il tema (l’uscita dal capitalismo “in avanti”) è così grande, urgente e necessario, che ci dovremmo ritrovare a ragionare di commons… “dal villaggio al pianeta-mondo”.


da Comune Info

Le foto sono del Murga Fest 2.0 (novembre 2018) ospitato in uno spazio sociale e culturale, noto per essere un vero bene comune della città di Roma: l’ex lavanderia del Santa Maria della Pietà (le foto sono tratte dalla pag. fb dell’Ass. Ex Lavanderia)


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