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Litigare bene? Oggi è la prima educazione civica

«C’è l’idea che il bravo cittadino, come il bravo bambino, sia accondiscendente, sufficientemente conformista e capace di adattarsi ad ogni situazione. Non è così. Il conflitto è un pezzo della collaborazione, non puoi collaborare se non entri in conflitto, perché è il conflitto che ti permette di capire le ragioni dell’altro», afferma Daniele Novara. In una società sempre più litigiosa e plurale, la competenza conflittuale è diventata cruciale. Come si fa? «Bisogna focalizzarsi sugli interessi delle parti, invece di arroccarsi sul posizionamento».

di Sara De Carli

«La conoscenza dei diritti e dei doveri un tempo rappresentava la base per una buona cittadinanza. Oggi non basta più. Saper vivere è sempre di più la capacità di affrontare gli imprevisti che la vita relazionale e sociale presenta. Senza sentirsi buoni, senza sentirsi cattivi»: è questa la sfida che il Centro PsicoPedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti lancia a trent’anni dalla sua nascita. Facciamo fatica a stare nelle relazioni, la convivenza – lo sperimentiamo tutti – è sempre più confronto quotidiano con chi la pensa diversamente da noi e di conseguenza sembra quasi impossibile: invece è solo questione di capire cos’è davvero il conflitto, per non rifuggirlo. Anzi, per scommettere sulla nostra competenza conflittuale come una competenza chiave per il futuro, tassello centrale di una educazione alla cittadinanza adatta ai tempi. L'appuntamento è per il 12 ottobre a Milano, con il convegno “Né buoni né cattivi. L’alfabetizzazione al conflitto per una nuova cittadinanza”.

Daniele Novara, lei è famoso tra i genitori per il suo “litigare fa bene”, cioè per il suo invito a non dire ai nostri figli “non litigate!” ma al contrario ad insegnargli a litigare bene. Ora con questo convegno passiamo dai bambini alla società. In realtà la dimensione sociale per lei è un tema antico…

Sì, possiamo dire che sono stato il primo negli anni ’80, quando ci fu il boom dell’educazione alla pace in collegamento con il movimento pacifista e antinucleare e contro la guerra fredda, a impostare una educazione alla pace non come composizione e armonizzazione ma come gestione dei conflitti. Io ho sempre sostenuto che la pace è conflitto: per creare una convivenza di reciproco rispetto, infatti, è importantissimo sapere affrontare i conflitti, senza evitarli e senza bloccarli, come invece in quegli anni voleva una certa tradizione irenistica e veterocattolica. Un po’ c’è ancora l’idea che la brava persona, come il bravo bambino, sia quella che non rompe le scatole, che è accondiscendente, sufficientemente conformista e capace di adattarsi ad ogni situazione. Non è così. Il conflitto è un pezzo della collaborazione, non puoi collaborare se non entri in conflitto, è il conflitto che ti permette di capire le ragioni dell’altro. E la persona evoluta è quella che sa esprimere il proprio dissenso rispettando il dissenso altrui e cercando di capire quali sono gli interessi comuni. Nella gestione dei conflitti infatti “interesse” non è una parola brutta, anzi si tratta proprio di imparare a far rispettare i priori interessi interagendo con gli interessi altrui. Il problema al contrario è che spesso invece di mettere al centro gli interessi di ciascuno, le persone si arroccano su posizioni, cercando di difendere a prescindere il proprio posizionamento, la propria appartenenza, il proprio ruolo. Se io ho chiarezza su quali sono i miei interessi, sono in grado di interagire con gli interessi altrui: invece se mi faccio prendere dal sacro furore di impormi, perdo il senso del mio vantaggio e si va alla pura e semplice contrapposizione. In queste ore, il dibattito attorno alla nascita del nuovo Governo lo sta dimostrando benissimo: il tema del prestigio e della posizione non è un tema di interesse, è qualcosa che blocca la gestione del conflitto.

Nella gestione dei conflitti infatti “interesse” non è una parola brutta, anzi si tratta proprio di imparare a far rispettare i priori interessi interagendo con gli interessi altrui. Il problema al contrario è che spesso invece di mettere al centro gli interessi di ciascuno, le persone si arroccano su posizioni, cercando di difendere a prescindere il proprio posizionamento, la propria appartenenza, il proprio ruolo. Se io ho chiarezza su quali sono i miei interessi, sono in grado di interagire con gli interessi altrui: invece se mi faccio prendere dal sacro furore di impormi, perdo il senso del mio vantaggio e si va alla pura e semplice contrapposizione.

Daniele Novara

"Imparare a far rispettare i priori interessi interagendo con gli interessi altrui", significa superare i propri interessi particolari perché si è trovato un interesse comune?
Non necessariamente. Il bello della gestione dei conflitti permette di lavorare sui tuoi vantaggi e sui maggiori vantaggi che puoi avere riconoscendo anche i vantaggi altrui. Questo è interessante, perché nel conflitto non c’è di per sé un lavoro sul “sacrificio”, non è che uno deve sacrificare il proprio interesse: ma è saper individuare il proprio interesse anche quando si riconoscono gli interessi degli altri. Un tema classico è quello degli stranieri: l’Italia ha un enorme vantaggio ad averli: fanno i lavori che nessuno vuole fare, pagano le pensioni, garantiscono un certo indice demografico… Non c’è alcun motivo reale per opporsi, se non quello del coltivare una società della paura e di costruire un nemico. Il problema qual è? Che dal punto di vista psicosociale la percezione della differenza, dell’inatteso, di ciò che è diverso da quando presupponevo, genera nei soggetti più fragili – non in tutti! – una percezione di marginalizzazione, una paura che alcuni hanno scelto di cavalcare. La costruzione di un nemico ha sempre funzionato per alimentare una appartenenza negativa. La fragilità del nostri mondi vitali è anche legata al fatto che si sono molto trascurate le necessità educative e pedagogiche.

Vediamo una esplosione dei conflitti e un aumento della suscettibilità. I social hanno sdoganato uno stile di vita sempre più “arrabbiato” e pieno di pretese. Ma è colpa dei social? Quali le cause?
È legato alla mutazione antropologica che ha visto il dilagare del narcisismo, non ai social. Ciò che fino agli anni 70 era una patologia, il narcisismo, improvvisamente è diventato uno stato generale, in cui tutti cercano di sgomitare, mettersi in mostra, evidenziarsi, prevalere. In una logica autoreferenziale di questo tipo, ci si dimentica l’esperienza della condivisione. Ed è paradossale che i social si chiamino così quando invece hanno favorito l’emergere di un narcisismo ossessivo e anche autolesionistico, pensiamo alle ragazzine di prima media che si fotografano mezze nude e postano la foto sui social…

Nel conflitto non c’è di per sé un lavoro sul “sacrificio”, non è che uno deve sacrificare il proprio interesse: ma è saper individuare il proprio interesse anche quando si riconoscono gli interessi degli altri.

Daniele Novara

Forse un tempo le differenze (culturali, politiche, sociali, religiose) le incontravamo solo in luoghi e momenti circoscritti e per lo più per scelta; oggi invece incontriamo quotidianamente qualcuno che la pensa diversamente da noi, nei nostri spazi di vita quotidiana, reale e online.
Questo è un vantaggio, se sappiamo costruire nella logica che dicevo prima. Come abbiamo scritto nella presentazione del convegno, saper vivere è sempre di più questione di avere la capacità di affrontare gli imprevisti che la vita relazionale e sociale presenta. Una volta bastava sottrarsi ai conflitti e ai litigi per vivere in maniera più o meno tranquilla. Oggi le contrarietà si presentano comunque nei luoghi di lavoro, nelle situazioni educative, nella vita affettiva e sentimentale. Non ci si può sottrarre alla necessità di imparare qualcosa di nuovo, qualcosa che in qualche modo va acquisito, appreso, imparato. Tu avevi una presupposizione e poi ti accorgi improvvisamente che questa non coincide più con la realtà: pensavi di andare in vacanza e trovare il mare pulito e invece è sporco, di rilassarti e invece i vicini di ombrellone rompono tutto il tempo… questo è il conflitto. Una rottura della presupposizione, delle aspettative rispetto alle evenienze quotidiane, qualcosa che provoca una percezione negativa – è normale ed è anche bello, perché l’alternativa sarebbe una vita in cui tutto è già previsto. Non abbiamo bisogno di nostalgia ma gestire la nuova società, riducendo gli elementi narcisistici per favorire l’integrazione degli interessi reciproci, sempre con il focus sugli interessi, senza idee di sacrifici o di rinunce. Ci può essere una rinuncia, ma sempre per qualcosa di meglio, non fine a se stessa. Imparare a vivere è imparare a gestire imprevisti e relazioni che vanno fuori da ciò che presupponevo e le persone hanno bisogno di continuare per tutta la vita a imparare a vivere, per questo dobbiamo investire di più nei processi educativi e di crescita, sia dei bambini sia degli adulti.

Se questa è una key-competence per il futuro, come si impara questa competenza conflittuale?
Occorre innescare un nuovo processo di alfabetizzazione, perché bambini, ragazzi e adulti hanno bisogno di imparare a saper gestire i conflitti, senza violenza e distinguendo la persona dal conflitto, e imparino anche a comunicare in modo da creare chiarezza piuttosto che confusione e minaccia.

E per gli adulti?
Devono avere a disposizione più facilmente strumenti e occasioni di formazione. Ha visto le polemiche sul fatto che aver introdotto il reato di omicidio stradale non ha diminuito gli incidenti sulla strada? Per forza, uno fa la patente a 18 anni e poi più nulla: è un errore, se vogliamo evitare gli incidenti sulle strade bisogna che oltre alla patente una volta ogni 10 anni si faccia un corso di aggiornamento. Lo stesso sulla gestione conflitti, sui posti di lavoro – soprattutto per alcuni lavori, penso agli insegnanti e ai politici ma anche a chi lavora nella ristorazione – dovrebbero essere obbligatori dei corsi sulla capacità di gestire le emozioni nelle situazioni conflittuali. È un processo di apprendimento non formale, ma un cittadino deve poter continuare a sviluppare le proprie risorse in relazione con gli alti, senza né buoni né cattivi – appunto – ma imparando insieme agli altri a stare insieme.

Save the date
“Né buoni né cattivi. L’alfabetizzazione al conflitto per una nuova cittadinanza” – Convegno Nazionale CPP
Milano, 12 ottobre 2019, Teatro Dal Verme (via S. Giovanni sul Muro)
Il programma completo è sul sito del CPP. Per informazioni e iscrizioni: convegno@cppp.it – 3316190707 o direttamente dalla pagina dedicata. Per i nostri lettori, l’iscrizione al convegno ha un prezzo agevolato: 60 euro anziché 75. Basta citare “VITA” nel modulo di iscrizione.

Foto di copertina by Andre Hunter on Unsplash


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