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Julia Kristeva e la parola della fede

Il bisogno di credere - spiega Julia Kristeva - non è solo l’origine di ogni religione, ma una necessità antropologica pre-religiosa e pre-politica. È l’investimento in un altro che mi riconosce e che riconosco, un ‘credito’ che fa esplodere quel desiderio di sapere, di porre domande, che anima la libertà di pensiero

di Francesco Paolella

Nulla appare più urgente di risolvere in un modo o nell'altro la questione dell'identità e dell'alterità: per poterlo fare, dobbiamo tornare alle domande fondamentali che da sempre assillano gli uomini e che la secolarizzazione trionfante di oggi ha nascosto come una nebbia, ma senza risolverle né cancellarle. Le religioni, da secoli ormai sempre sul punto di morire (almeno qui da noi in Occidente), sono pur sempre una fonte essenziale per quelle domande, per conservare e suscitare il naturale bisogno di conoscersi e di conoscere l'altro.

La psicanalisi, per parte sua, non può essere ridotta a una semplice demolizione del religioso e, in particolare, del bisogno di credere che è proprio dell'uomo. Julia Kristeva riesce in C'è dell'altro. Saggi su psicanalisi e religione (con prefazione di Silvano Petrosino. Vita & Pensiero, Milano 2019)– che raccoglie diversi suoi interventi usciti sulla rivista “Vita & Pensiero” – a tenere viva e presente la tensione esistente fra psicanalisi e religione, riconoscendo nel rapporto fra parola e fede appunto uno dei luoghi in cui quel dialogo fra campi così diversi può affermarsi. La psicanalisi non ha soltanto voluto demolire il ruolo mistificatorio e consolatorio della religione, ma ha, in un certo qual modo, riconosciuto, proprio nell'inconscio una trascendenza.

«Per semplificare ulteriormente questo riassunto sommario di alcuni punti essenziali nell’interfaccia psicoanalisi/religione, dirò che l’ascolto freudiano dell’inconscio ha permesso di pensare la trascendenza (e non dimentico l’Ego trascendentale di Husserl con i suoi seguiti fenomenologici) come immanente all’essere parlante» (pagine 63-64).

La psicanalisi ci ha fatto scoprire in sostanza che c'è sempre dell'altro, che c'è un altro in ognuno di noi, una alterità irriducibile che estrania l'individuo da se stesso.

Ricorrendo anche al suo lavoro nella filosofia, nella critica letteraria e nella semiotica, Kristeva ci pone allo stesso tempo davanti al problema di reinventare i valori dell'umanesimo, che pure sono stati ormai messi nell'angolo. Esperienze “estreme” come l'handicap (vera, ultima espressione moderna del tragico) ci costringono a tornare alla nostra condizione di mortalità; la vulnerabilità umana è, paradossalmente, una via d'accesso, forse l'ultima, per riconoscere la singolarità umana nella sua incommensurabilità e nella sua positività, e, allo stesso tempo, la possibilità di costruire una nuova laicità, che non si limiti a predicare e praticare la tolleranza, la solidarietà e l'integrazione dei diversi e dei marginali. Anche posto che Dio non sia davvero più necessario, il bisogno di credere (di credere nelle proprie parole e di credere nell'altro) è davvero «una necessità antropologica, preligiosa e prepolitica» (pagina 82).

Altra vera emergenza del presente l'imporsi della radicalizzazione religiosa, che sembra essere una vera attrattiva per tanti giovani e una attrattiva che ha, ovviamente, a che fare strettamente con la religione. Occorre capire perché – e dovremmo dire “misteriosamente” – la distruttività veicolata da una ideologia terroristica possa diventare un vero e proprio idolo. Non si può – questo l'invito che esce da queste pagine – più credere che l'unica alternativa possibile sia fra la definitiva secolarizzazione e la violenza dell'oscurantismo religioso. Non c'è alternativa per noi alla “invenzione” di un nuovo senso, che parli anche religiosamente.


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