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Greta e il debunking che l’ha calpestata

Greta non è di Bibbiano. Ma Bibbiano è un bell’hashtag, quindi usare volutamente e consapevolmente espressioni che facessero il collegamento faceva comodo dal punto di vista comunicativo. E Salvini l’ha fatto. È orribile, ça va sans dire. Ma l’operazione di debunking che è scattata immediatamente dopo ha ignorato in ugual modo i diritti di Greta. Di cui ora sappiamo anche il Comune di residenza. Il nome e cognome di sua madre. E abbiamo la foto. A dispetto della Carta di Treviso...

di Sara De Carli

Greta non è di Bibbiano. Ma Bibbiano è un bell’hashtag, quindi usare volutamente e consapevolmente espressioni che facessero il collegamento faceva comodo dal punto di vista comunicativo. Matteo Salvini e la Lega l’hanno fatto, sì. Non ci piove. È disgustoso, ça va sans dire. E benissimo ha fatto chi l’ha segnalato. Ma l’operazione di debunking che è scattata immediatamente dopo ha ignorato in ugual modo i diritti di Greta. Di cui ora sappiamo anche il Comune lombardo di residenza. Il nome e cognome della madre. E abbiamo visto anche la foto: è tanto facile identificarla con quella sua bella testa fulva e sono tanto puntigliosi i colleghi che la pubblicano – con dei pixel sugli occhi, ok – per dire con il ditino alzato che no, gli altri si erano sbagliati, la bimba col fiocco rosso in braccio a Salvini era sua figlia, non Greta, Greta è l’altra. Ci mettete due minuti a trovare tutto, googolando. Con tanto di vecchi articoli che raccontavano la storia di Greta e i motivi per cui era stata allontanata dalla sua famiglia con dovizia di particolari, solo che all’epoca – giustamente – erano stati messi nomi di fantasia e adesso invece si dice “il nome era finto, ma questa di cui si parla era proprio lei”.

Bene, bravi tutti. Un grande giornalismo. Peccato che tutto questo violi clamorosamente la Carta di Treviso, alla faccia del debunking. Si tratta di un protocollo firmato il 5 ottobre 1990 da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono azzurro con l'intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia. Che dice che:

2) va garantito l’anonimato del minore coinvolto in fatti di cronaca, anche non aventi rilevanza penale, ma lesivi della sua personalità, come autore, vittima o teste; tale garanzia viene meno allorché la pubblicazione sia tesa a dare positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare e sociale in cui si sta formando;

3) va altresì evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento: foto e filmati televisivi non schermati, messaggi e immagini on-line che possano contribuire alla sua individuazione. Analogo comportamento deve essere osservato per episodi di pedofilia, abusi e reati di ogni genere;

4) per quanto riguarda i casi di affidamento o adozione e quelli di genitori separati o divorziati, fermo restando il diritto di cronaca e di critica circa le decisioni dell’autorità giudiziaria e l’utilità di articoli o inchieste, occorre comunque anche in questi casi tutelare l’anonimato del minore per non incidere sull’armonico sviluppo della sua personalità, evitando sensazionalismi e qualsiasi forma di speculazione.

Il principio di fondo che ispira la Carta di Treviso è che «le disposizioni che tutelano la riservatezza dei minori si fondano sul presupposto che la rappresentazione dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità. Questo rischio può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando». Direi che questo non è il caso.

Foto Unsplash


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