Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Media, Arte, Cultura

Che spettacolo portare a scuola i bimbi rom

Nove di loro insieme ad altrettanti bambini italiani sono stati protagonisti di un esperimento sociale unico. Intervista al regista Francesco Martinelli

di Marilù Ardillo

Si contano ad oggi circa 130 campi rom in Italia riconosciuti dallo Stato. All’interno vivrebbero circa 15mila persone. Altre 9.500 si sarebbero insediate nei cosiddetti campi informali. Le comunità principali sono 23: il 44% ha la cittadinanza italiana, il 34% proviene dall’ex Jugoslavia. Negli insediamenti informali invece prevalgono i romeni.
In tutte le zone vivono soprattutto minorenni, che rappresentano il 55% della popolazione totale: la loro aspettativa media di vita è di circa 10 anni inferiore a quella dei bambini italiani (dati forniti dall’Associazione 21 Luglio).
Chi sono i bambini per chi abita un campo rom? L’ho chiesto a Francesco Martinelli, autore, regista, insegnante e attore teatrale, fondatore del Teatro delle Molliche, responsabile del Centro di Orientamento ed Educazione Teatrale, che conduce il laboratorio teatrale di Impegno Civile. Questa la sua risposta: «Sono semplicemente parte della comunità. I più piccoli vengono portati insieme agli adulti a chiedere l’elemosina, o vengono lasciati ai fratelli maggiori. Così i bambini più grandi hanno già smesso di essere bambini. Le bambine osservano silenziose ed emulano molto presto le loro madri, donne devote alle esigenze degli uomini e dei luoghi che abitano. Spesso partono, non hanno giocattoli, vivono in moduli abitativi molto piccoli».

Cinque mesi, nove bambini italiani e nove bambini di un campo rom della provincia di Bari tra i cinque e gli undici anni. Come nasce il progetto “Così si fa”?
Poco tempo fa, due volontari della Caritas che entravano in un campo rom di un paese in provincia di Bari per giocare con i bambini, insieme alla Fondazione Vincenzo Casillo mi hanno intercettato chiedendomi di pensare ad un progetto teatrale che coinvolgesse i bambini rom e i bambini italiani, in quello che è diventato un esperimento sociale di integrazione e scambio. Mi ha sostenuto anche la collaborazione con la parrocchia Mater Gratiae e don Antonio Maldera. Ho scelto di rappresentare in una scuola uno spettacolo ispirato alle favole di Esopo. E lo abbiamo intitolato “Così si fa”. È stata la prima volta che il nostro territorio ha deciso di riconoscere un’opportunità ad un insediamento che occupa una fetta di paese da 10 anni. Ho cercato di portare in quel campo l’attività più civile che ci possa essere: il teatro. Un’arte, una disciplina e un’azione sociale. È stata una sfida difficilissima, ma ricca e appassionante.

Come ha gestito la comunicazione con i ragazzi, in particolare con quelli di etnia rom?
Mi verrebbe da dire con l’amore. Mi sono concentrato molto sulla metodologia, sulla proposta e sugli obiettivi da raggiungere. Ero molto preoccupato che non si riuscisse a realizzare nulla. Il rischio era che l’obiettivo di conoscenza e di condivisione non fosse raggiunto. Ho spostato l’attenzione sul gioco, abbiamo improvvisato spesso, con una torta o con una partita a pallone. Mi hanno aiutato anche i bambini italiani, consapevoli di cosa significasse fare teatro con un insegnante. È stato difficile far comprendere loro cosa fosse un’esibizione, un testo, un pubblico, cosa significasse l’incontro con persone estranee che ti guardano, a cui dover dare qualcosa. Si sono mutati i piani. Ho fatto un grosso lavoro di fiducia in loro stessi, per acquisire prima di ogni altra cosa la consapevolezza di poter e di saper dare. Spesso ci siamo abbracciati, pure senza parlare, abbiamo comunicato. Abbiamo ballato la loro musica tradizionale, abbiamo condiviso anche le perplessità, le diversità e i silenzi.

Perché le fiabe di Esopo?
Perché le fiabe di Esopo sono primitive, danno la possibilità di lavorare in anonimato: tutto è rapportato agli animali che hanno un valore universale. I personaggi non hanno un nome, un luogo o un’epoca, sono funzioni naturali. Mi davano la possibilità di esplorare un mondo libero, creativo. Dicendo: «Sei una volpe», ho potuto lasciare a loro il gioco interpretativo e uno spazio libero di espressione, non schematizzandoli in un ruolo. In più, sentivo la necessità di trasmettere un messaggio educativo, attraverso una morale. Esopo mi ha dato l’opportunità di avere uno schema fisso, che iniziava con “C’era una volta” e “Finisce” e che si ripeteva. Perché i bambini rom non conoscono il racconto, la dimensione della narrazione: vivono il qui e ora. In questo modo sono diventati loro stessi il racconto.

Cosa pensa rimarrà ai giovani rom di questa esperienza?
Aver fatto una cosa insieme. E la memoria di un fatto: pure tra dieci o 20 anni non dimenticheranno mai questa esperienza di rappresentazione. È rimasta senza dubbio l’opportunità di uscire dal campo per una ragione diversa, l’occasione di socializzare pure maldestramente con altri bambini che non siano gli stessi della comunità. Di sperimentare la manualità, di scoprire come sia fatta una scuola, di imparare a porsi un obiettivo, di conoscere e assaggiare cibi diversi e di raccontare i loro. Rimarrà lo scambio, l’arricchimento, il divertimento e la bellezza. Quando saranno adulti, sapranno di aver condiviso una cosa bella insieme ad altri bambini italiani e comunque non rom. Questo sono certo non permetterà a nessuna delle due parti di nutrire pregiudizi o erigere barriere, né di fare male. Avranno in memoria gli applausi, i sorrisi, i dietro le quinte: la loro coscienza è codificata nella condivisione.

Dopo il successo tanto inaspettato quanto meritato, come darà seguito a questo progetto di integrazione?
Stiamo cercando anzitutto di creare delle occasioni per farli rincontrare, perché non è permesso loro di uscire dal campo. Ci piacerebbe dare continuità ai legami creati, ma ci rendiamo conto di aver bisogno della consapevolezza e dell’appoggio dei genitori, che purtroppo lungo questo percorso non sono stati presenti né partecipativi. Attuare un cambiamento culturale in sistemi così radicati non è mai semplice.
Tra le fotografie relative allo spettacolo ce n’è una che ritrae in un angolo, vicino alla porta, una signora vestita di rosso, con un abito certamente diverso da tutti, elegantissimo: è la mamma dei bambini rom, che fanno capo ad un’unica famiglia, un unico cognome.
Allo spettacolo è venuta solo lei. I suoi occhi sono ammirati, il suo mi è sembrato un atto di grande coraggio. È venuta volontariamente, da sola, non si è avvicinata a nessuno, ma ha indossato un abito elegante e ha scelto di esserci. Quello che dobbiamo fare adesso è tentare di istituzionalizzare il progetto: vorrei provare a portare lo spettacolo nella sala consigliare della mia città alla presenza del sindaco, aperto al pubblico, invitando anche tutti i consiglieri. Vorrei che ci si rendesse conto dell’emergenza culturale a cui dobbiamo far fronte con i mezzi giusti, insieme.
Dal prossimo anno, sarebbe bello farlo diventare un metodo, esportandolo anche in altri campi rom.


Nella foto di apertura: Martinelli circondato dai suoi attori bambini in un momento della rappresentazione di “Così si fa” – credit foto: Laboratorio Urbano Open Space


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA