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Valutazione d’impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione. Ecco una guida alla lettura

di Claudio Travaglini e Matteo Pozzoli

Non c’è dubbio che ”la valutazione dell’impatto sociale” sia uno degli elementi introdotti dalla Riforma del Terzo settore che, presentando maggiore innovatività, ha catturato da subito l’attenzione di studiosi e addetti ai lavori. Il legislatore della legge 6 giugno 2016, n. 106 recante “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” (legge delega) ha richiamato più volte l’impatto sociale, arrivando a relazionare l’affidamento agli enti dei servizi d'interesse generale nella fase di programmazione a livello territoriale “al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio” e a creare un potenziale collegamento – sviluppato poi solo indirettamente – tra impatto sociale e benefici fiscali.

Sicuramente hanno influenzato la scelta operata gli esempi derivanti da altri contesti internazionali, in particolare l’esempio della prassi britannica che ha eletto il “social impact measurement” come criterio di valutazione principale per l’operato delle charities e il “social return on investment” come metodo di valutazione di riferimento per esprimere un giudizio sui progetti in essere.

In questo contesto si colloca il decreto del Ministero del lavoro del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019 “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”, volto a dare attuazione alla richiesta “esplicita” da parte del legislatore delegante di disciplina della materia. La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione.

Ciò detto, cos’è l’impatto sociale? Ce lo dice ancora una volta la norma delegante per la quale “per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Ad una prima lettura il proposito appare di difficile realizzazione, dato che le attività di interesse generale impattano sulla comunità di riferimento assieme a tanti altri fattori e prevederne gli effetti “di medio e lungo periodo” appare improbo per il più accorto dei valutatori.

Il proposito diviene più realistico se si considerano correttamente le linee guida come “standard di processo”, che delineano un percorso dichiarando come dice la norma il proprio “valore promozionale ponendosi quale strumento di facilitazione della concreta realizzazione della valutazione di impatto sociale (VIS)”. Tale processo deve essere regolato da alcuni principi quali intenzionalità, rilevanza, affidabilità, misurabilità, comparabilità, trasparenza e comunicazione), principi in gran parte comuni al processo di costruzione del bilancio sociale.

La scelta di standard di processo non definisce invece, specifici indicatori e misurazioni, compito proprio di uno standard di contenuto. La scelta sembra l’unica operativamente percorribile in quanto gli ambiti di intervento delle attività di interesse generale oggetto di misurazione sono estremamente eterogenei e qualsiasi formula “rigida” ed omnicomprensiva di valutazione dell’impatto sociale sarebbe stata comunque approssimativa ed insufficiente.

Basti pensare alla diversità delle situazioni che concernono gli interessi generali dell’art. 5 del Codice del Terzo settore che vanno dalle prestazioni socio-sanitarie alla tutela dell’ambiente, dall’adozione internazionale al commercio equo e solidale. Non sembra possibile, quindi, trovare una formula valutativa generale, considerato che anche la stessa attività nel medesimo contesto di riferimento può essere svolta con obiettivi, modalità e risultati diversi che richiedono indicatori estremamente differenti. Infatti il Decreto richiede agli enti di “prevedere all’interno del sistema di valutazione una raccolta di dati sia quantitativi che qualitativi, considerando indici ed indicatori, sia monetari che non monetari, coerenti ed appropriati ai propri settori di attività di interesse generale” esplicitando le dimensioni di valore che le attività perseguono.

Le linee guida richiedono così l’esplicitazione del processo di definizione delle finalità, dei risultati e degli effetti che le organizzazioni si propongono di raggiungere a partire dalla partecipazione al processo dei soggetti e/o delle istituzioni individuate come interlocutori o destinatari dell’attività.

Il documento fornisce altresì indicazioni per “organizzare” il proprio percorso valutativo, e definire:

  • dati oggettivi e verificabili;
  • la verifica dello scostamento tra risultati raggiunti e obiettivi programmati;
  • l’utilizzo delle informazioni raccolte a fini di comunicazione esterna agli stakeholders;
  • l’utilizzo di misure di sintesi per rappresentare l’impatto sociale.

Tutti i punti sopra elencati richiederebbero osservazioni più approfondite la cui trattazione ci porterebbe lontano nella discussione. Si deve, però, almeno soffermare l’attenzione sul fatto che il processo di valutazione dell’impatto sociale dovrebbe rappresentare per l’ente non solo un mezzo di comunicazione esterna, ma primariamente uno strumento di controllo strategico delle attività mostrando talvolta agli stessi dirigenti le dimensioni di valore perseguito ed il modo per misurarle.

D’altronde se le società lucrative controllano la gestione per capire se i propri target “monetari” e “non monetari” sono in linea con quanto programmato, gli enti del Terzo settore una volta definite le dimensioni esplicative non debbano monitorare la produzione di valore sociale attraverso indicatori liberamente predefiniti.

In merito all’applicazione della norma, come spesso accade in questa Riforma il legislatore non “obbliga” gli enti a comportamenti “virtuosi” collegando tali comportamenti a potenziali benefici. In questa prospettiva, le linee guida prevedono che le pubbliche amministrazioni “possano” richiedere la realizzazione di sistemi di misurazione del social impact per la “valutazione dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni e delle attività svolte”, anche in via differita, per interventi di almeno 18 mesi e di entità economica superiore ad 1milione di euro. Si introduce così una programmazione e individuazione preventiva di parametri di risultato ed impatto che per essere efficace dovrebbe inserirsi nei meccanismi di assegnazione e remunerazione delle attività svolte.

L’indicazione conferma una percezione avuta dalla lettura del testo, ossia che l’impatto sociale sia considerato un tema soprattutto per “grandi”, visto anche la possibilità di includere la misurazione nel bilancio sociale (obbligatorio per gli enti del Terzo settore che presentano proventi annui superiori a 1milione di euro). Con questo non si vuol dire che gli enti non grandi non abbiano un impatto sulla comunità di riferimento. Si vuole, in realtà, significare che la costruzione di modelli per la misurazione dell’impatto, pensando ai casi internazionali e nostrani di riferimento, non è cosa sempre intuitiva e spesso onerosa in termini organizzativi. Una soluzione per gli enti di minori dimensioni la suggerisce il decreto affermando che i Centri di servizio per il volontariato e le reti associative nazionali possono fornire supporto per l’identificazione e la realizzazione di strumenti di misurazione. L’indicazione appare, in verità, naturale perché un movimento (si pensi alle grandi reti) assume una credibilità maggiore quando riesce a misurare il suo impatto in via complessiva, e per dare un senso all’aggregazione dei dati (e non sommare pere con mele) è opportuno disporre di dati omogenei: inoltre modelli omogenei di misurazione diffondono una cultura organizzativa unitaria. In tal modo anche i piccoli enti potranno strutturare e sperimentare modelli valutativi più semplici, che sicuramente la prassi professionale, tecnica e delle organizzazioni non mancherà di identificare.

Non si può, infine, non apprezzare l’elasticità offerta nell’adozione del modello della valutazione di impatto sociale. Se, infatti, gli schemi di bilancio necessitano della comparabilità tra enti e quindi schemi standardizzati, l’impatto sociale sembra dover essere maggiormente cucito su misura dello specifico ente con una sua applicazione uniforme nel corso del tempo per esplicitare il suo valore. Valore che non è rivolto solo alla comunicazione esterna, ma che può rappresentare un momento di riflessione “istituzionale e strategica” utilissimo per gli stessi dirigenti e interlocutori dell’organizzazione sulla missione dell’ente, gli impatti ricercati sulla comunità di riferimento e le modalità per valutarli. Non resta, quindi, di poter vedere come saranno recepite le indicazioni ministeriali, sperando che la misurazione non resti una dichiarazione di intenti ma una fonte di informazioni nuova per tutti i soggetti interni ed esterni, coinvolti, a diverso titolo, nel Terzo settore.

*Claudio Travaglini, Università di Bologna

*Matteo Pozzoli, Università degli Studi di Napoli “Parthenope”


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