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Caso Dj Fabo, Pessina: «La Corte ha aperto la strada alla nuova burocrazia della morte»

La sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Dj Fabo introduce il suicidio assistito nell’ordinamento italiano. Ne abbiamo parlato con Adriano Pessina, ordinario di Filosofia Morale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e docente di Bioetica

di Lorenzo Maria Alvaro

«Soltanto una battaglia ideologica può celebrare il suicidio assistito come una conquista e non come una sconfitta, della medicina, della solidarietà e, a mio avviso, dello stato di diritto che non può anteporre una decisione individuale a un dovere collettivo che vieta qualsiasi cooperazione alla morte altrui». Così commenta Adriano Pessina, ordinario di Filosofia Morale del’Università Cattolica del Sacro Cuore e docente di Bioetica, la sentenza della Corte Costituzonale che, sul caso Dj Fabo, ha stabilito non esserci istigazione al suicidio aprendo di fatto la possibilità del suicidio assistito. L’intervista


Lei ritiene che la decisione della Corte debba essere corretta attraverso una legge che ne sani le incongruenze. Quali?
La prima, e la più evidente, è che non ritenere punibile l’aiuto al suicidio contrasta con la norma che condanna l’istigazione al suicidio: il legislatore condanna l’istigazione in forza del convincimento che non si possa avallare come un bene da tutelare il suicidio – non si condanna l’istigazione all’onestà – e per questo dovrebbe contrastarne anche l’aiuto. Se il suicidio non è un diritto, non si può introdurre il dovere di qualcuno ad assecondarlo, tantomeno di un’intera categoria professionale. Sarebbe paradossale che la volontà di un individuo di morire determinasse per legge l’obbligo di un’intera categoria professionale di assecondare questo fatto – dato che non esiste alcun diritto di morire.

La non punibilità riguarda però solo casi ben determinati. La Corte fa riferimento a situazioni in cui la persona sia affetta da una “patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”…
Questi criteri sono perlomeno generici e equivoci, tanto che, presi alla lettera, non potrebbero nemmeno applicarsi tutti e tre al caso del DJ Fabo, la cui situazione fisica era l’esito di un incidente stradale e non di una patologia irreversibile e che non era “tenuto in vita” da supporti vitali. Come è noto, già oggi chi non ritenesse proporzionato per sé un sostegno che lo tiene in vita, potrebbe rinunciarvi senza ricorrere al suicidio assistito. La rinuncia ai trattamenti non è equiparabile al suicidio: ciò che conduce alla morte il paziente, in caso di rinuncia ai trattamenti di sostegno vitale, non è né l’atto del suicida stesso né il farmaco che assume, ma la condizione patologica che risulta incompatibile con la vita, una volta venuto meno il sostegno vitale stesso. Questa sentenza favorisce una pericolosa confusione tra la rinuncia ai trattamenti e il suicidio assistito. Confusione di piani resa evidente dal fatto che la Corte subordina la non punibilità a quanto già stabilito dalla legge sul Consenso informato e le direttive anticipate: ma questa legge non prevede nessun avallo ad atti suicidari o eutanasici. Tralascio l’incomprensibile riferimento, fatto dalla Corte, ai Comitati etici, evocati come nuovi giudici nei confronti della richiesta di morire.

Quali sono le altre incongruenze che rileva?
Il fulcro del suicidio assistito è posto in una zona rilevantissima esistenzialmente, ma difficilmente valutabile, che riguarda il vissuto di chi si sente affetto da sofferenze psicologiche ritenute insopportabili. Mentre il dolore fisico trova oggi delle risposte sempre più adeguate, sentimenti profondi come la disperazione, l’angoscia, il sentirsi di peso per i famigliari, inutile per la società, non si possono controllare, misurare, valutare e spesso alimentano la pulsione di morte. Ma proprio per questo si dovrebbe contrastare il suicidio assistito, perché ogni volta che non si ostacolano questi sentimenti si finisce con il legittimarli e con il dar voce a un’implicita pressione sociale che esprime la difficoltà del farsi carico dei tempi lunghi della malattia, della disabilità e della vulnerabilità. La Corte ha aperto la strada alla nuova burocrazia della morte: in che modo, con quali strumenti e procedure, da parte di chi e con quali competenze si potrà valutare la richiesta del paziente, misurarne il grado di libertà, consapevolezza e determinazione? E alla fine, chi aiuterà la persona a compiere su di sé l’atto finale che lo condurrà a morte? In quale luogo? A casa, in ospedale, in reparti ad hoc?

Lei poi è molto contrario al fatto che siano i sanitari a dover procedere con il suicidio assistito. Perché?
Se, come affermano i sostenitori del suicidio, questo atto va considerato un atto di libertà individuale estrema, allora soltanto coloro che fra gli amici o i parenti ne condividano il valore potrebbero essere legittimati a farlo. Dare la morte e aiutare qualcuno a darsi la morte non può diventare una professione o qualificare una professione.

Chi sostiene la bontà della sentenza parla di vittoria della libertà. Che ne pensa?
Il fatto che questa possibilità, pur nella sua razionalità, possa apparire quasi “crudele”, perché coinvolgerebbe gli affetti più cari nella cooperazione per la morte, è forse il segno di quanto sia sbagliato favorire il suicidio. Non c’è nulla di cui rallegrarsi di fronte alla morte volontaria. Non basta nemmeno porre l’accento sulla fine della sofferenza e del dolore. Lo sanno benissimo coloro che accettano, per i loro cari, l’evento della morte per cause naturali: di fronte alla morte c’è solo il tempo dell’elaborazione del lutto e del silenzio, non esiste spazio per festeggiamenti. Soltanto una battaglia ideologica può celebrare il suicidio assistito come una conquista e non come una sconfitta, della medicina, della solidarietà e, a mio avviso, dello stato di diritto che non può anteporre una decisione individuale a un dovere collettivo che vieta qualsiasi cooperazione alla morte altrui.


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