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Le profezie di Havel

Un intervento di Luigi Geninazzi che ha ricordato come per Havel “la logica del potere impersonale potrà risultare il destino del mondo. Sarà il dominio di un potere anonimo e ipertrofico che si manterrà sulla base di una finzione ideologica e opererà al di fuori di ogni criterio di verità”. Per questo sognava “delle comunità informali, non burocratiche, dinamiche e aperte, che dovevano costituire una polis parallela”.

di Redazione

Promosso da Istituto Havel in collaborazione con Vita, Centro Culturale di Milano e Centro Ceco si è svolto ieri un incontro dedicato Vaclav Havel, “Europa e polis parallela: attualità di Vaclav Havel nel tempo dei populismi”. Coordinati da Marco Dotti sono intervenuti, il giornalista Luigi Geninazzi, il professor Giorgio Galli e padre Francesco Occhetta di Civiltà Cattolica. Qui vi proponiamo l'intervento di Luigi Geninazzi.

Suppongo che il motivo per cui sono stato invitato a parlare stasera stia nel fatto che, essendo vecchio, sono uno dei pochi che ha conosciuto personalmente Václav Havel già in epoca comunista, negli anni Ottanta. Era da poco uscito di prigione dove aveva passato quattro anni per il reato di “sovversione”, il che tradotto dalla langue de bois del regime significava che era stato punito per essere uno dei portavoce del movimento Charta ’77. Il suo nome, ben noto in Cecoslovacchia, cominciava ad essere conosciuto anche in Occidente. Insieme ad alcuni amici ero rimasto impressionato da un suo scritto, ”Il potere dei senza potere”, giunto in Italia in modo rocambolesco e pubblicato da una piccola casa editrice diretta da un ardimentoso prete romagnolo, don Francesco Ricci, un autentico “contrabbandiere di libri” dall’Est Europa. E così decidemmo di intervistarlo. Il compito toccò a me, giovane giornalista del settimanale “Il sabato”. Fu una bella avventura, conversammo per un intero pomeriggio.

Sono andato a rileggere quell’intervista e vi ho trovato considerazioni straordinariamente profetiche. Havel, come sappiamo, qualifica la dittatura imperante allora nei Paesi del blocco sovietico come post-totalitarismo, nel senso che il potere comunista dopo Stalin più che per la brutalità della repressione si caratterizza per la sua ideologia menzognera che induce l’individuo ad abdicare alla propria coscienza.. Ma attenzione, dice Havel, il potere impersonale non è affatto estraneo alla cultura occidentale. “Il comunismo è uno specchio deformante della nostra civilizzazione. E in questo senso è uno specchio ammonitore che ci fa intravedere il possibile futuro della civiltà occidentale. Voglio dire che la logica del potere impersonale potrà risultare il destino del mondo. Sarà il dominio di un potere anonimo e ipertrofico che si manterrà sulla base di una finzione ideologica e opererà al di fuori di ogni criterio di verità”. È impressionante. Molto prima che s’instaurasse la dittatura dell’algoritmo, la manipolazione globale, la diffusione virale della post-verità Havel aveva messo il dito nella piaga. E resta più che mai attuale la sua indicazione: di fronte a questo potere impersonale l’unica possibilità di cambiamento è la responsabilità personale, la forza di un io non demoralizzato. Sognava “delle comunità informali, non burocratiche, dinamiche e aperte, che dovevano costituire una polis parallela”.

Havel ha scritto queste cose quando era un dissidente perseguitato dal potere. Ma poi è diventato suo malgrado un politico di primissimo piano, Presidente, ed in questo ruolo ha continuato a riflettere sul potere e sulla politica. Due concetti: Stato e nazione.

Nel suo famoso discorso del Capodanno 1990 disse che lui sognava “uno Stato spirituale”. Sconcerto, scandalo. Cosa voleva dire? “Lo Stato è opera dell’uomo, l’uomo è opera di Dio. Volevo dire che la difesa dell’uomo è un dovere più alto del rispetto verso lo Stato. Ritengo che l’ordine morale sia superiore all’ordine legislativo, politico ed economico e che questi ultimi dovrebbero procedere dal primo”. Le regole non bastano alla democrazia. Questo pensiero è fondamentale oggi e risponde all’interrogativo sui fondamentali pre-politici dello Stato liberale. Penso al dibattito tra l’allora cardinal Ratzinger e Habermas a partire dalla riflessione di Böckenförde secondo cui lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti normativi che non è in grado di garantire. Havel era un’anima naturaliter christiana. Mi disse quel pomeriggio: “Sento che tutto è rivolto verso una meta. In tutto quello che faccio riconosco qualcosa più grande di me. Come definirlo? Non saprei: il mio Dio è un maestro dell’attesa. Mi apre delle possibilità e poi mi giudica. E’ la mia coscienza ma anche la mia libertà e la mia speranza”. (La frase sul miracolo quando riceve a Praga Giovanni Paolo II nell’aprile del 1990).

Sul concetto di nazione. Havel si è trovato ad affrontare un populismo nella versione nazionalista. Mi riferisco al cosiddetto divorzio di velluto del 1993 tra Cechia e Slovacchia. Ci sono molte sue osservazioni in proposito nel volume “Un uomo al Castello”. “Da un lato io avevo il dovere di difendere l’integrità dello Stato ma dall’altro non potevo non prendere in considerazione il movimento d’indipendenza slovacco. I popoli hanno il diritto di seguire il cammino che può portare ad uno Stato nazionale proprio”. Il valore della nazione e l’idea che poteva essere salvaguardata con una “Federazione autentica” basata sulla reale uguaglianza dei due soggetti che la compongono”. (In linea con Karol Wojtyla che in una sua poesia scrisse: “la patria è un tesoro che va dilatato, è la voce del cuore che tende ad abbracciare tutti gli altri”). “Il Super-ceco è il simbolo dell’oscurantismo e dell’odio verso coloro che la pensano in modo diverso. Ed allora ecco gli appelli: Liberiamoci degli ebrei, dei tedeschi, dei borghesi, dei dissidenti, degli slovacchi e poi chi sarà il prossimo? I Rom? Gli omosessuali? Gli stranieri?E chi rimarrà qui, in questa patria ridotta a cortile dei Super-cechi?”. Sintonia con le parole pronunciate da Papa Francesco: “Nazionalismo considera il proprio Paese come una sala operatoria dove tutto è sterilizzato”. Ma il nazionalismo, diceva Havel, dopo il 1989 ha trovato una formula più sottile, l’anti-europeismo. “L’idea però è la stessa: perché mai dobbiamo consultarci con qualcuno? Perché dobbiamo condividere il potere con un estraneo? Perché dobbiamo aiutare uno straniero. Noi ce la facciamo da soli”.

Nelle “Lettere ad Olga”, la sua cara moglie morta prematuramente. “Il fanatismo è una fede che tradisce se stessa. Il fanatico è colui che sostituisce l’amore di Dio con l’amore per una religione creata da lui; l’amore per la verità con l’amore per un’ideologia; l’amore per gli uomini con l’amore per un progetto che sostiene essere l’unico in grado di servire gli uomini”. Siamo riportati al punto fondamentale: l’ideologia. Havel ci ha indicato una posizione umana per farvi fronte, una consistenza del vivere, una “polis parallela” che lui definiva “Esperienza di vita dentro i bastioni del potere impersonale”. Non si è mai scoraggiato davanti alle difficoltà, ha sempre guardato con speranza agli accadimenti. Speranza, non banale ottimismo. Vorrei concludere con le sue parole al riguardo:

“La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire”.


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