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Scacco al potere senza regole e senza controllo: Giorgio Galli e il futuro del pensiero democratico

È uscito a fine settembre l’ultimo scritto di uno dei più grandi politologi italiani degli ultimi due secoli: Giorgio Galli. Il libro si intitola “Il populismo anticapitalistico”. Nel libro è contenuta un’esposizione chiara e documentatissima della storia e del senso del cosiddetto populismo e, cosa ancor più importante, una proposta teorica coerente e radicale sul futuro possibile delle democrazie

di Fabrizio D'Angelo

È uscito a fine settembre l’ultimo scritto di uno dei più grandi politologi italiani degli ultimi due secoli: Giorgio Galli. Il libro si intitola Il populismo anticapitalistico(Edizioni Punto Rosso, Milano, s.d.) e ha per coautore Francesco Bochicchio.

Nel libro è contenuta un’esposizione chiara e documentatissima della storia e del senso del cosiddetto populismo e, cosa ancor più importante, una proposta teorica coerente e radicale sul futuro possibile delle democrazie.

Il mio primo incontro con Giorgio Galli risale al 28 giugno del 2002. Posso dirlo con certezza per via di una personale debolezza: l’autografo che gli chiesi per la mia copia della sua Storia del partito comunista italiano del 1953. Di quel distinto e gentilissimo signore mi colpirono profondamente due cose: i suoi occhi vivacissimi e buoni e la sua curiosità senza forma né fondo. Una curiosità integrale: radicale e senza pregiudizio.

In quella e in altre successive occasioni gli dissi a più riprese che dopo 50 anni di carriera letteraria doveva smettere di raccontare le cose già successe e puntare dritto sul da farsi. Gli chiesi, col mio linguaggio poco ortodosso, di “tirare fuori la testina”.

Dopo la pubblicazione del suo“Il pensiero politico occidentale (B.C. Dalai editori, 2010) lo sentii al telefono e lui mi chiese con il solito garbo: “hai visto che ho tirato fuori la testina?”. Si riferiva alle ultime poche pagine del libro, che aveva intitolato: L’avvenire (pag. 424-435). In quelle pagine stanno scritte le tesi che hanno marcato gli ultimi 10 anni della sua riflessione politologica e che costituiscono la parte più significativa del suo “aver tirato fuori la testina”.

Tre tesi e un'esperienza

La prima tesi è che le democrazie rappresentative siano entrate in crisi perché nella sostanza non fanno più il loro mestiere, ossia mettere il potere sotto il controllo e le prescrizioni della sovranità popolare. Se in passato il centro del potere effettivo stava nella politica nazionale degli stati sovrani, ormai questo centro si è spostato all’economia. E in particolare a quella forma di economia finanziaria e sovranazionale che possiamo identificare con le grandi corporations finanziarie e industriali multinazionali.

La seconda tesi è che il meccanismo democratico e gli strumenti a disposizione delle democrazie rappresentative restano ancora idealmente vivi e validi. Il concetto di popolo e di sovranità popolare non hanno perso secondo Galli nulla del loro valore. Come gli ho sentito dire pochi giorni fa citando Vaclav Havel, Galli crede ancora che possiamo, e forse dobbiamo, sperare ancora che la società civile sia in grado di resistere a qualsiasi forma di tirannia. Sia essa economica, militare o digitale. L’umano ha e avrà sempre strumenti contro il disumano.

La terza tesi è, di conseguenza, che l’unico modo di rivitalizzare le nostre democrazie in crisi di efficacia e di identità sia “l’elezione diretta, a suffragio universale, di parte dei consigli di amministrazione delle multinazionali, veri centri di un potere da esercitare come quello politico, solo grazie al voto popolare” (Il populismo, cit., p. 5).

La prima volta che ho ascoltato quest’ultima tesi dalla bocca di Giorgio sono inorridito. All’epoca ero un manager di una multinazionale dei media, e si affollarono nella mia mente tutte le obiezioni tecniche possibili sulla totale impreparazione di un qualsiasi “eletto dal popolo” a svolgere tale ruolo direttivo in modo credibile ed efficace.

Il secondo argomento, per me decisivo, contro tale tesi era quello sulla sacra intangibilità della libertà d’intrapresa, in cui nessun governo popolare doveva potersi immischiare. Obiezioni semplici e chiare le mie. Oggi ho cambiato idea su tutti e due i fronti. Quanto alla questione della competenza degli eletti, ci sono due secoli di democrazia parlamentare a dimostrare che il mondo democratico non è stato certo rovinato dal rischio che dei perfetti buoni a nulla legiferassero. Anzi. Gli uomini imparano, se devono e se possono. Questo presupposto illuminista resta per fortuna valido anche oggi.

Quanto alla libertà d’intrapresa, rilevo che al giorno d’oggi se ne abusa facendone un principio assoluto e totemico. In questo senso abbiamo bisogno di uno o più correttivi: giustizia, equità.

Insomma, oggi in economia si usa solo la liberté, senza egalitéfraternité.

Abbiamo bisogno di un Montesquieu dell’economia, che illustri con quale separazione dei poteri e con quali meccanismi correttivi possiamo equilibrare la spinta avida e rapace del fare economico e finanziario, sotto l’ombrello di garanzia della sovranità popolare.

Un'altra via: la fase della proposta

Aver fatto queste riflessioni in merito al potere politico tra sette e ottocento ha regalato a un pezzo di umanità un destino di libertà politica e di relativo benessere sociale. È auspicabile che tali idee vengano estese all’ambito economico che oggi, muovendosi senza controllo, devasta tanto la società che il pianeta.

La proposta di Giorgio ha, come tutta la sua riflessione, il pregio della semplicità e della chiarezza. Le proposte di legge sui beni comuni e il pensiero ecologico stanno conquistando larghi strati di una società per altri versi ancora ipnotizzata dai miti della società degli ultra-consumi.

La proposta di Galli cerca però non solo di fissare dei limiti al capitalismo finanziario selvaggio sottraendogli alcuni ambiti, ma di regolare a monte il governo della grande economia in modo democratico. E non statalista, sia chiaro.

Ora che non sono più un manager di multinazionali (coincidenza significativa, scriverebbe forse Giorgio), penso che inventare strumenti per un governo democratico dell’economia sia un passaggio indispensabile per aggiornare la democrazia e non dovervi rinunciare per conclamata inefficacia.

Avendo viaggiato in lungo e in largo per il pianeta e avendo sperimentato di persona vari regimi non democratici, ho sviluppato un attaccamento viscerale a questa creatura del pensiero settecentesco e illuminista europeo. Consiglio vivamente a tutti di verificare di persona prima di optare a cuor leggero per altre soluzioni.

In fondo: se la democrazia rappresentativa ha funzionato così bene con la politica per un lungo tratto di storia dell’occidente a che titolo non dovrebbe funzionare in altre sfere?


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