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Guerra e conflitto non sono sinonimi (anche se persino ai Nobel sbagliano)

«Guerra e conflitto non sono sinonimi, per quanto la comunicazione oggi li usi come tali. Nella guerra c'è violenza, nel conflitto no. Violento non è colui che litiga sempre, ma colui che non sa litigare», dice Daniele Novara. «Per questo occorre imparare la competenza conflittuale, magari nell'ora di educazione civica»

di Sara De Carli

Il Premio Nobel per la pace per il 2019 è andato al primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, «per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto con la vicina Eritrea». In questa frase, tratta dalla motivazione ufficiale del recente Nobel, c’è un errore. «Guerra e conflitto non sono sinonimi, per quanto la comunicazione oggi li usi come tali. La guerra ha a che fare con la violenza e la sopravvivenza, mentre il conflitto attiene all’area delle relazioni e dei punti di vista. Se confondiamo le cose, usando il termine conflitto come se fosse esattamente sovrapponibile al termine guerra, inconsciamente portiamo il conflitto nell’area delle cose pericolose per la sopravvivenza, generando angoscia e spingendo le persone a ritrarsi dal conflitto, cioè a ritrarsi dalle relazioni»: Daniele Novara, fondatore e direttore del Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, ha esordito così al convegno “Né buoni né cattivi”, che sabato 12 ottobre a Milano ha radunato un pubblico di ben 1.400 persone per ragionare attorno alla gestione del conflitto come competenza base per una nuova cittadinanza, in tempi in cui siamo tutti più rancorosi, suscettibili, narcisisti.

Il conflitto non è violenza, piuttosto è quando non si avverano le tue aspettative. Il problema è che oggi tutto ciò che ci infastidisce troppo, viene percepito come violenza. Ma dove c’è una buona educazione al conflitto, la guerra non ha ragione di esserci

Daniele Novara

Se avete usato anche voi la parola conflitto come sinonimo di guerra, consolatevi quindi, siete in buona compagnia. «Il conflitto non è violenza, piuttosto è quando non si avverano le tue aspettative, quando trovi un ostacolo imprevisto. Il problema è che, per effetto di una mutazione antropologica nella direzione del narcisismo, tutto ciò che ci offende o che ci infastidisce troppo, oggi viene percepito come violenza». Ma la violenza ha a che fare con un danno intenzionale effettivo e tangibile alle persone, ha spiegato Novara (vedi foto), il resto è un conflitto, che può essere gestito bene o gestito male. «Dove c’è una buona educazione, la guerra non ha ragione di esserci», ha ripetuto più di una volta Novara, ricordando Maria Montessori. In particolare la violenza non ha ragione d’esserci dove c’è una buona educazione al conflitto: «tendiamo a dire che il violento è uno che litiga sempre, ma è il contrario, violento è colui che non sa litigare, è un carente conflittuale. Per questo, nell’ottica della convivenza e di una nuova cittadinanza, occorre scommettere sull’imparare la competenza conflittuale, legata alla gestione delle emozioni e alla comunicazione».

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Una proposta, su questa linea, Daniele Novara l’ha fatta al Miur: «evitiamo che il ritorno dell’educazione civica nelle scuole sia una materia nozionistica, con le interrogazioni: inseriamo piuttosto dei laboratori di apprendimento sulla gestione del conflitto, per costruire una vera sicurezza basata non sulla paura ma sulle proprie risorse».

Di paura come passione diffusa e sentimento collettivo caratterizzante i nostri giorni, ha molto parlato Adolfo Ceretti, uno dei padri della giustizia riparativa. Viviamo, come ha dimostrato Steven Pinker nel volume Il declino della violenza e come dicono i dati, in un’epoca e in un luogo del mondo infinitamente più sicuri di altri luoghi e altri tempi: «Nello stato di Rio De Janeiro gli omicidi sono 34 per mille ogni anno, in Italia sono 0,59 per mille di cui la metà sono femminicidi», ha ricordato Ceretti, «perché allora in Europa c’è questo allarme sicurezza? La paura non è conseguenza di un aumento di violenza, ma una condizione che segnala la perdita (vera) di certezze». La risposta? «Non una politica repressiva, ma la promozione di una resilienza di comunità».

Due inteventi sono stati dedicati in maniera specifica alla scuola e all’educazione. Non per nulla, il primo applauso a scena aperta l’aveva conquistato, fin dai saluti istituzionali, l’assessore all’educazione del Comune di Milano, Laura Galimberti, che dopo aver messo a fuoco la diffusione massiccia del rancore sociale, aveva parlato della fiducia come risposta su cui ricostruire una nuova cittadinanza: «una parola difficile, in tempi in cui preferiamo affidare i nostri figli alle telecamere piuttosto che alle educatrici».

L’incontro con il diverso è parte del kairòs dell’oggi. Ma come diceva Panikkar, tanti arrivano all’incontro coi preservativi culturali, che impediscono la fecondazione

Franco Lorenzoni

Milena Santerini, ordinario di Pedagogia generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed esperta di intercultura, ha invitato a «non accontentarsi di vivere fianco a fianco, apprezzando la bellezza della diversità. Sarebbe naïf. L’intercultura oggi significa costruire orizzonti comuni, costruire comunità e cittadinanza. La segregazione scolastica ad esempio è uno dei temi su cui ci giochiamo il futuro, il white flight non è una soluzione, abbiamo bisogno al contrario di vivere il mix a scuola, nella consapevolezza che questa esperienza genera coesione sociale. Dobbiamo impegnare gli adolescenti in progetti comuni».

Franco Lorenzoni invece, maestro elementare a Giove e fondatore ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, ha portato la sua testimonianza nella direzione di una educazione alla vulnerabilità, perché «se si è vulnerabili si capisce, se si è corazzati non si vuole capire. Come Chirone, che è ferito ma non può morire e in questa condizione diventa esperto di cura. E se capisci, cambi, non si può capire senza cambiare. L’incontro con il diverso è parte del kairòs dell’oggi», ha concluso, «ma come diceva Panikkar, «tanti arrivano all’incontro coi preservativi culturali, che impediscono la fecondazione».


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