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Zamagni: «Le tecnologie ci sfidano a ridisegnare lo spazio del Terzo settore»

Inaugurando il NonProfitDay a Milano, Stefano Zamagni ha tracciato la mappa futura di un Terzo settore «che può e deve insegnare alle imprese che il modello verticale di organizzazione è finito, perché stiamo andando nell'era dell'organizzazione condivisa e della prosperità inclusiva»

di Marco Dotti

Serve ancora il Terzo Settore? La risposta è ovvia, ma non è scontata. Non lo è perché il modo “nazional popolare” con cui finora si è raccontato ha dato gioco facile ai suoi avversari. Serve dunque «un nuovo storytelling, scientifico e rigoroso», precisa Valerio Melandri, fondatore del Festival del Fundraising.

Tante le sfide, tante le proposte affrontate oggi al NonProfitDay, la giornata organizzata in collaborazione con Il Sole 24 ore proprio dal Festival del Fundraising che si terrà dal 13 al 15 maggio 2020. Tra queste sfide, quella cruciale è sullo spazio.

La giornata del non profit è stata aperta dalla lectio di Stefano Zamagni che si è interrogato sulla necessità di ridisegnare lo spazio dell'agire sociale. Nell’epoca della quarta rivoluzione industriale, dove tecno-ottimisti e tecno-pessimisti si scontrano sul futuro del lavoro, il Terzo settore, ha esordito Zamagni, «può dimostrarsi in grado di essere competitivo, creando occupazione in un mercato sempre più basato su beni relazionali».

Un Terzo settore in cerca di spazio

Zamagni parte da una citazione di Giacomo Leopardi: noi italiani, scriveva il poeta di Recanati, sappiamo fare le cose benissimo, ma non sappiamo di averle fatte. Commenta Zamagni che «questo avviene anche pr quella grande istituzione sociale che è il Terzo settore: ci dimentichiamo di quanto sia "italiana" questa grande realtà».

Un Terzo settore che, oggi più che mai, davanti alla sfida tecnologica da un lato e della crescente disuguaglianza economica dall'altro deve ritagliarsi il proprio spazio.

Per farlo, «bisogna smettarla con l'elemosina e bisogna passare alla beneficientia. Lo capirono i cistercensi, che lo scrivono nella loro Charta Caritatis del 1098. Ma che cosa significa fare beneficientia? Significa fare il bene, uscendo dal paternalismo. Significa innovare».

Abbiamo bisogno di beneficenza. Ma abbiamo bisogno anche di "benedicenza": che la società, nel suo complesso, dica bene di noi. Solo se si comunica il bene che si fa, il bene può diventare contagioso

Stefano Zamagni

Nella beneficenza il bisogno di chi chiede aiuto deve essere valutato con intelligenza, «ossia il benefattore deve sforzarsi di comprendere le ragioni per le quali il povero è tale, cosa che non accade così nell’elemosina, dove l’identità del portatore di bisogni è spesso sconosciuta al benefattore, il quale ha tutto l’interesse a non volerla conoscere».

La sfida delle tecnologie convergenti

«Portate innovazione sociale in quella tecnologica – invita Zamagni – perché senza innovazione sociale, i frutti della tecnologia non si vedranno». O saranno frutti amari.

Molti ritengono che il Terzo settore, nell'epoca delle tecnologie convergenti, non abbia futuro. Robot e algoritmi ne prenderanno il posto. «Non è così, ma dobbiamo capire bene una cosa», insiste Zamagni. Dobbiamo capire che «mentre le nostre società registrano aumenti endemici della ricchezza, vedono aumentare anche l'area dell'esclusione».

Un'area dell'esclusione che sarà destinata a crescere se « all'innovazione tecnologica non si accompagnerà in maniera congiunta l'innovazione sociale. Infatti, l'innovazione tecnologica è capace di creare valore aggiunto, ma non è in grado di ridistribuire ricchezza se non si accompagna all'innovazione sociale». Solo il Terzo settore può intermediare e rimediare a questo squilibrio.

L'innovazione, per Zamagni, coincide con la capacità concreta di «modificare i modelli organizzativi delle aziende per ampliare il raggio della prosperità inclusiva. La prosperità deve includere: questa è la missione del Terzo settore. Concretamente: il Terzo settore deve aiutare l'impresa for profit a uscire dallo schema organizzativo taylorista. L'idea base del tayloismo è il modello gerarchico verticale, mentre serve un nuovo modello, quello orizzontale».

La raccolta fondi viene dopo la semina. Non è una questua. I frutti arrivano se ho seminato, se ho innaffiato, se ho avuto cura di costruire, se mi so raccontare

Stefano Zamagni

Olocrazia: una rete orizzontale per la conoscenza

Il modello taylorista, rigidamente gerarchizzato, con ordini impartiti dall'alto e mere esecuzioni in basso non funziona più. Eppure, «gran parte delle nostre imprese sono ancora tayloriste, da qui la loro crisi», spiega Zamagni.

Siamo entrati nella fase storica della tacit knowledge, concetto sviluppato da Michael Polanyi, ossia del valore di capacità e connessione che il lavoratore può portare come contributo creativo e innovativo all'impresa. Per questo il Terzo settore deve aiutare gli imprenditori a capire che il successo di un'impresa è oggi più che mai legato alla conoscenza tacita, non a quella codificata che è facilmente veicolabile da algoritmi».

Sta dunque emergendo una forma organizzativa chiamata olocrazia: modello orizzontale elaborato da Brian Robertson. Ma Robertson a chi si è ispirato? «Si è ispirato a Leonardo da Vinci e alla sua bottega artigiana. Il primo modello di olocrazia è nato in Italia, con Leonardo!», ha insistito il professor Zamagni.

Il Terzo settore come vettore di sostenibilità

Se il Terzo settore può insegnare molto all'impresa for profit in termini di modelli organizzativi, lo può fare perché la sostenibilità «che è una questione di relazioni è iscritta nel suo dna». Abbiamo bisogno di sostenibilità nella relazione tra uomo e natura, nella relazione tra uomo e uomo, ma anche nella relazione tra utilità e felicità. Per questo, ha puntualizzato Zamagni, la sostenibilità è un paradigma relazionale. Ed è anche il miglior antidoto alla crisi del principio democratico.

«A partire dal XVII si affermano due concetti di politica democratica: politica come enterprise association e la politica come civic association. Non è più il tempo dell'enterprise association: questo è il modello che ha provocato fenomeni ben noti come il nazionalismo, il sovranismo, il patrimonialismo. Dobbiamo invece insistere sull'altro modello, che concretamente significa passare da un sostema sociale di tipo bipolare (Stato e mercato), a un sistema tripolare (Stato, mercato e comunità)».

Ogni società ha bisogno di reciprocità. «Il principio di reciprocità regge le relazioni all'interno della comunità, ma nella furia costruttivista il Novecento ha abbandonato il principio di reciprocità, in nome dell'efficienza in capo al mercato e della redistribuzione statalista.

Se vogliamo passare dal modello bipolare, al modello tripolare dobbiamo reimmettere nelle prassi e nelle organizzazioni il principio di reciprocità. Un principio che solo il Terzo settore può nuovamente immettere nel sistema».

Se vogliamo attuare il modello Stato-mercato-comunità, spiega il professore, «dobbiamo arrivarci dando ali al mondo del Terzo settore. Tutto questo se vogliamo salvare il principio democratico, altrimenti il rischio è che la democrazia scompaia»

Ma la democrazia non scomparirà, conclude Zamagni. «Serve però più orgoglio e più capacità di raccontarsi, perché solo raccontando il bene che facciamo – e non cadendo nel paradosso indicato da Leopardi del fare senza sapere di fare – il bene diventa contagioso.».


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