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Venezia la città fragile

Lo è non da oggi, ma da sempre, per un fattore costitutivo con il quale ha sempre convissuto. Con la notte tremenda, dove la marea è arrivata quasi a 190 cm, questa fragilità si è dovuta misurare con un fenomeno nuovo. Riuscirà Venezia a reggere questa sfida?

di Giuseppe Frangi

«Venezia è forse la città più città che esiste; voglio dire il luogo più “costruito” dall’uomo». Lo scrive Sergio Bettini, grande storico, autore di un libro affascinante e imprescindibile per chi voglia capire questa città senza paragoni (“Venezia, nascita di una città”, 2006). Bettini nelle sue pagine spiega come la città sia nata nel nulla e dal nulla (erano isolotti deserti e barene). Tutto quello che ne è venuto è come un fiore mirabile che nessuno ha pianificato. Venezia è la città fatta integralmente dall’uomo partendo dal nulla, ma è anche la città meno pensata e meno progettata che ci sia. L’esito di questa sua natura così speciale è contenuto in una parola che ne esprime l’anima: fragilità. A Venezia la fragilità non è però un meno. Se amiamo, se restiamo stregati da questa città è proprio perché la sua bellezza è un tutt’uno con la sua fragilità.

È un fattore costitutivo che ne disegna la fisionomia: se si passa in vaporetto lungo il Canal Grande ci accorgiamo come i magnifici palazzi non abbiano nulla dell’imperiosa presenza dei grandi palazzi delle altre città italiane. Sono facciate mosse, irregolari nate per vivere in armonia con la variabilità dell’acqua. «L’architettura veneziana dovette farsi leggera, diafana; tradursi in valori di colori, di luce, di ritmo; dissolvere le masse; divenire infine quasi un’immagine senza materia», scrive sempre Bettini. La fragilità è quella natura che fa di Venezia una città dalle forme liquide, flessibili, annodate in un odine in cui solo che la conosce da dentro si ritrova.

Parlare oggi della fragilità di Venezia, dopo che una notte infernale con il mare sollevato da un vento di scirocco che soffiava a 100 km all’ora ha devastato mezza città, sembra pleonastico. Eppure per amare Venezia, per capirne i problemi a cui si trova esposta in questa stagione di cataclismi climatici, bisogna proprio partire da questa sua fragilità. Venezia è una città che non può pensare di vedere risolti i suoi problemi se non si tiene conto di questo fattore che la costituisce e che è il fondamento del suo fascino. Perché il Mose, macchina gigantesca di cui nessuno sa dire gli esatti, potenziali vantaggi, non decolla? Forse perché Venezia non ha bisogno di qualcosa che domini il mare, ma di soluzioni che l’aiutino a convivere con il mare, origine di tutte le sue straordinarie fortune.

Venezia ha bisogno innanzitutto di rispetto per la propria fragilità. E in questo senso l’immagine delle grandi navi che si affacciano cariche di turisti sul Bacino di San Marco è la più grande violenza simbolica che subisce. A volte chi guarda al problema Venezia pensa che la soluzione sia quella di liberarla da questa sua fragilità. Lo si fa anche oggi, nella retorica che impazza ancor più dell’Acqua Granda dell’altra notte. La prospettiva deve essere invece esattamente contraria. Venezia fedele a quella fisiologia che le ha fatto attraversare i secoli, deve affrontare questo scenario drammaticamente nuovo caratterizzato da subsidenza (lo sprofondamento del suolo di 14 centimetri in un secolo, per cause naturali e antropiche) e eustatismo, cioè l’innalzamento del livello del mare che nell’arco dello steso tempo è stato di circa 9 centimetri. In tutto 23 centimetri sui quali Venezia gioca il suo destino.


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