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Marco Minniti: «Africa? Non servono aiuti, servono investimenti»

«Ogni euro che l'Europa investe in Africa, non è un aiuto all'Africa, ma un aiuto all'Europa!». Il governo delle migrazioni, spiega l'ex ministro dell'Interno, «non si fa a Roma o a Bruxelles. Si fa in Africa, in particolare in Libia». Eppure, proprio Africa e Libia sono due dei grandi temi spesso dimenticati dai governi. «Affrontarli ora», spiega Minniti, «è decisivo per il futuro dell'Europa e del Paese»

di Marco Dotti

Una «filosofia della sicurezza e dell'ordine». Così Enrico Gargiulo titolava un suo studio, dettagliato e analitico, pubblicato su Meridiana nel 2018 e dedicato all'operato di Marco Minniti come Ministro dell'Interno. Un operato che – scrive il sociologo – «si è concentrato in maniera prioritaria sulla gestione dell'immigrazione» seguendo due direttrici.

La prima, sul fronte interno si è concretizzata con la Circolare concertata nel 2016 con il capo della polizia Gabrielli. La seconda direttrice, più preventiva, sul fronte esterno è diventata chiara con il viaggio in Libia del gennaio 2017. Si trattava di iniziare le trattative sulla gestione dei rimpatri e il controllo dei flussi migratori alle frontiere in un Paese che, in sessant'anni, non aveva mai firmato nemmeno la Convenzione di Ginegra.

Oggi, dopo le dichiarazioni di Erdogan, la Libia è tornata a destare preoccupazioni per l'Europa e, in particolare, per il nostro Paese. Ma perché la Libia e l'Africa in genere sono così importanti per il governo delle migrazioni e per la "salute" della nostro democrazia? Ne parliamo proprio con Marco Minniti.

Il dovere di controllare i flussi migratori

Onorevole Minniti, il picco della cosiddetta crisi migratoria è oramai alle nostre spalle. Eppure continuiamo a parlare di emergenza. L'associazione Carta di Roma, ieri, ha mostrato il ruolo dei media nella costruzione di una certa isteria..
Partiamo da una constatazione: le migrazioni non sono cancellabili ed è una drammatica illusione quella che viene comunicata quando si dice che non ci saranno più migrazioni. Con un paradosso: chi propone soluzioni facili è, solitamente, il primo ad alimentare logiche emergenziali. Il gatto si morde la coda. I media hanno seguito questa emergenza, amplificandola. Ma così non si va da nessuna parte.

Perché dice che le migrazioni non sono cancellabili?
Non sono cancellabili perché sono un dato strutturale del pianeta. Dobbiamo liberarci dalla considerazione di un Paese continuamente ripiegato su se stesso. Basta alzare gli occhi per capire che il tema delle migrazioni riguarda l'interno pianeta, non soltanto l'Italia o il Mediterraneo.

Al netto che le migrazioni non sono cancellabili, che cosa va fatto per affrontarle?
Controllare i flussi migratori. Io ritengo sia un dovere per ogni democrazia. Senza una politica sulle migrazioni andiamo a sbattere.

Perché parla di "dovere "nel controllo dei flussi migratori?
Una democrazia non deve mai lasciare i cittadini di fronte alla scelta: sicurezza o umanità.

Il caos populista

La logica "populista", però, punta proprio a questa disintermediazione estrema…
Ma è evidente che è contro la democrazia porre l'alternativa tra sicurezza e umanità. Quando si promette più sicurezza, a patto che si ceda sul terreno dell'umanità è evidente che la democrazia sta perdendo la propria anima. Il compito della democrazia è, esattamente, quello di non lasciare soli i cittadini con le loro paure. So benissimo che le conciliazioni sono più complesse e impegnative delle alternative nette, tuttavia le democrazia esistono proprio per questo: per conciliare.

Governare i flussi migratori non significa far propria la logica dell'emergenza?
Al contrario. Governare i flussi migratori significa cancellare la parola "emergenza" dal vocabolario politico e sociale di un Paese. Appunto perché dato strutturale, le migrazioni non sono un'emergenza. La cosa peggiore che possiamo fare è proprio affrontarle come se fossero un'emergenza. L'emergenza trasmette un messaggio che è, in ogni caso, transitorio e alla fine può essere superato. Ma le migrazioni non possono essere cancellate, né superate. Possono – anzi: devono – essere governate.

Il nostro Paese in che situazione si trova, oggi?
L'Italia per lungo tempo ha rincorso il fenomeno. Lo ha rincorso nel modo peggiore: servendosi di strumenti emergenziali per rispondere a fenomeni strutturali.

La chiave dell'Europa è l'Africa

Cosa significa, allora, governare i flussi migratori?
Significa avere consapevolezza che il cuore del problema, per quanto riguarda l'Italia, non si gioca né a Roma né a Bruxelles…

Sicuramente è molto importante che a Roma ci siano idee chiare e a Bruxelles si assumano responsabilità condivise…
Certamente, tuttavia la partita fondamentale non si gioca né a Roma, né in Europa. La partita fondamentale si gioca in Africa. Nei prossimi vent'anni, il rapporto con il Continente africano sarà il cuore della questione, non soltanto per l'Italia, ma per l'intera Europa.

Eppure, l'Europa sull'Africa ha delegato il nostro Paese, oggi assente…
Un errore che l'Europa non può più permettersi di fare. Mai come oggi due continenti hanno un destino così profondamente intrecciato. Se l'Africa starà bene l'Europa starà bene, ma se l'Africa starà male l'Europa starà male. In Africa si giocano tre partite cruciali per i destini dell'Europa. La prima partita è riguarda i flussi democrafici: la crescita negativa dell'Europa, rispetto alla crescita della popolazione africana può creare potenziali squilibri se non governato e abbandonato alle retoriche dell'emergenza.

Seconda partita: l'Africa è fondamentale per la lotta contro il terrorismo. C'è un terrorismo autoctono in Africa, ma c'è anche l'esito dei foreign fighters dell'Islamic State: la più grande legione straniera che mai si sia conosciuta, circa 30 mila stranieri che sono andati a combattere in Siria o in Iraq, provenienti da 100 Paesi nel mondo…

Su questo c'è la tragedia del popolo curdo…
A quel popolo a cui abbiamo chiesto la responsabilità di combattere il terrorismo, prima di abbandonarli al loro destino. Ma al loro destino sono state abbandonate anche le prigioni in cui erano detenuti centinaia di terroristi dell'IS. Che cosa accadrebbe, chiediamocelo, se questi terroristi arrivassero da noi?

Sarebbe una profezia che si autoavvera, dopo aver gridato per anni "al lupo", il lupo arriverà…
Se i foreign fighters volessero ritornare in Europa, la via africana sarebbe la più semplice. Con un doppio rischio: che la via africana sia solo di passaggio; ma anche che pezzi dell'Africa settentrionale diventino zone franche per un IS che si ricompone.

Cosa non troppo lontana dalla realtà…
Anche ricordando che una capitale della Libia, Sirte, fino a pochi anni fa era controllata proprio dall'IS…

Parlava di un terzo punto…
L'Africa è cruciale per quanto riguarda le questioni della moderna energia. Non parlo del gas e del petrolio, cosa già nota. Parlo dei minerali fondamentali per le nuove tecnologie. Chiunque abbia in mano uno smartphone, sa benissimo che senza le materie prime africane non sarebbe realizzabile. Ci troviamo davanti a un gigantesco paradosso, ovvero che il punto più elevato della tecnologia dipende da uno dei continenti che consideriamo più arretrati del pianeta.

Questo cosa ci dice?
Ci dice che dobbiamo liberarci dalla falsa convinzione che l'Africa sia un continente povero. Questo quadro ci fa capire la complessità di cosa ci trovaremo a governare o a non governare. Ma di certo, governare le migrazioni non significa e non può significare "aiutarli a casa loro".

Perché non possiamo aiutarli a casa loro?
Perché ogni aiuto che diamo non deve essere un aiuto. Deve essere un investimento. Ogni euro che l'Europa investe in Africa, non è un aiuto all'Africa, ma un aiuto all'Europa: è un investimento per il futuro dell'Europa.

Di che investimenti parla?
Parlo di investimenti materiali, ma anche immateriali, empowerment e trust building. Investimenti in tema di costruzione di classi dirigenti di quei Paesi.

Corridoi umanitari: la vera arma contro i trafficanti

Fin qui la proiezione, ma c'è anche un contrasto all'illegalità da esercitare…
C'è un bellissimo film di Wim Wenders che si intitola Doppio movimento. Il primo movimento è sconfiggere i trafficanti di esseri umani. Ma se vogliamo sconfiggere ogni forma di illegalità legata al traffico di esseri umani dobbiamo anche costruire canali legali per le migrazioni. Il tema del rapporto fra sicurezza e umanità si gioca tutto qui, nella lotta contro i trafficanti.

Il tema va affrontato in Africa?
In particolare in Nord Africa.

Sta parlando dei corridoi umanitari?
Esattamente. Ed è possibile farlo, perché le Nazioni Unite sono presenti in tutti i Paesi africani, persino nella martoriata Libia dove è in corso una guerra civile. Ma nonostante la guerra civile, le Nazioni Unite sono, in questo momento, a Tripoli, con l'UNHCR e l'Organizzazione Mondiale per l'immigrazione. Badi che non è stato sempre così, perché fino al 2017 le Nazioni Unite si occupavano della Libia, ma stavano a Tunisi. Oggi è possibile poter fare e realizzare i corridoi umanitari. D'altronde, già li avevamo realizzati nel 2017, con la Conferenza Episcopale Italiana… L'Italia e la Cei, nel dicembre 2017, hanno realizzato il primo corridoio umanitario nella storia della Libia verso l'Europa.

Prima non ci aveva pensato nessuno?
La Libia non aveva mai firmato la Convenzione di Ginevra! In Libia sono successe tante cose: prima c'era un re, poi un dittatore, poi una guerra promossa dalla comunità internazionale per liberarla da quel dittatore… e tuttavia nessuno aveva mai chiesto alla Libia di firmare la Convenzione di Ginevra. Per questo, in assenza di una firma, la Libia non poteva fare corridoi umanitari. Poi si è chiesto, pur in condizioni difficilissime, di affrontare il tema. Abbiamo realizzato il primo corridoio umanitario e bisogna continuare e insistere per farne altri.

Proprio in questo momento, che la Libia è tornata al centro di grandi questioni geopolitiche e militari…
Proprio ora, per la ragione che dobbiamo governare le emergenze. Non farci governare da esse. Vede, la gestione dell'immigrazione non si fa nel Mediterraneo, ma nelle ambasciate dei Paesi di partenza. Si fa con le liste, coordinandosi con i Paesi di partenza. Si fanno le liste dei partenti, che vogliono venire a lavorare in Italia, le liste vengono gestite dai Paesi di partenza e, nell'attesa, i richiedenti devono imparre l'italiano e la cultura generale del nostro Paese: per avere i primi strumenti di integrazione.

Le sembra realistico?
Sì, a patto di liberarsi di una visione emergenziale. Tutto, oggi, viene affrontato day by day, in maniera propagandistica…

Come con i "porti chiusi"?
Esattamente. Porti chiusi, ma l'immigrazione illegale è aumentata, perché è aumentato il numero degli sbarchi fantasma. Sbarchi fantasma significa che nessuno sa esattamente chi arriva e come arriva. Ma è proprio lo sbarco fantasma il più grande pericolo per la sicurezza.

Un gigantesco paradosso…
Quando arriva una nave in un porto italiano ci sono forze di polizia che identificano coloro che arrivano. Quindi sappiamo di che cosa stiamo parlando. Ma con gli sbarchi fantasma, favoriti dalla retorica dei "porti chiusi", non sappiamo nulla. Non conosciamo nulla. Brancoliamo nel buio.

Dobbiamo ripristinare l'accoglienza diffusa

Lei aveva insistito, ai tempi del suo Ministero, sull'accoglienza diffusa e sulla convergenza verso un modello Sprar, ne è ancora convinto?
Sono sempre più convinto che vada ripristinata l'accoglienza diffusa. Se vogliamo superare le diffidenze tra coloro che accolgono e coloro che sono accolti dobbiamo andare verso l'accoglienza diffusa.

La scelta del penultimo Governo è stata quella di cancellare l'accoglienza diffusa…
Una scelta radicalmente sbagliata e dannosa per il nostro Paese: è stato un colpo alle politiche di integrazione e, di conseguenza, un colpo alle politiche di sicurezza.

Abbiamo inoltre dimenticato che in Italia c'è un piano nazionale per l'integrazione...
Non ne parla più nessuno. Non ne parlano nemmeno più le organizzazioni sociali e del Terzo settore. Questo è il senso di una sconfitta politica e culturale. Il Piano nazionale per l'integrazione significa: formazione, accesso al lavoro, rispetto interreligioso…

Di dialogo interreligioso parla solo il Papa, oramai…
Eppure, l'Italia è il Paese che nel 2017 ha firmato il patto più avanzato tra una democrazia e tutte le varianti dell'Islam presenti in Italia… Quel patto era fondamentale, perché dava il senso della possibilità di costruire un "Islam italiano", che è un passaggio fondamentale per passare dal patto all'intesa istituzionale… Ma anche questo l'abbiamo abbandonato. Abbiamo chiuso tutto nella scatola cieca dell'emergenza.

Qui ritorna il ruolo dei corpi intermedi., che dovrebbero essere una chiave per aprire quella scatola…
E torna l'idea forte di una democrazia che si vuole tale: mai lasciare i cittadini soli con le loro paure. I corpi intermedi servono proprio a questo. Il messaggio deve essere inequivoco: la democrazia ha a cuore, sullo stesso piano, i diritti di chi è accolto e di chi sta accogliendo. Una cosa che una democrazia non può fare è dare l'idea che i cittadini si debbano confrontare da soli con le loro paure. Se coloro che accolgono non si sentono ascoltati, ancor prima che tutelati si crea un corto circuito. Per rimediare a questo corto circuito e tenere insieme i diritti di chi accoglie e i diritti di chi è accolto, senza porre la falsa alternativa sicurezza vs. umanità l'accoglienza diffusa è la chiave di volta.

Intende dire che dobbiamo superare i grandi centri di accoglienza?
Sì, perché sono sbagliati in sé, al di là delle circostanze. Danno l'idea di un'emergenza, ma soprattutto i grandi numeri, per quanto ci si possa sforzare di gestirli bene, non vengono mai gestiti bene. I piccoli numeri, invece, ci consentono di superare le diffidenze, dando riconoscibilità uno per uno alle persone che stiamo ospitando. I piccoli numeri consentono anche di avere maggiore capacità di inclusione e integrazione. Nei prossimi vent'anni, il Paese che meglio include e meglio integra è il Paese che meglio costruisce il proprio futuro. Il Paese che meglio costruisce la propria sicurezza nel futuro.


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