Welfare & Lavoro

Terremoto Centro Italia: le comunità di pratica stanno diventando grandi

Con i Bambini, dopo il terremoto che ha colpito il Centro Italia, ha scommesso sull'empowerment delle piccole associazioni locali. Sono nate sei comunità educanti, che guardano al futuro partendo dalla valorizzazione delle tradizioni del territorio. Come sta andando? Un'intervista a Marco Rossi Doria

di Sara De Carli

Dal sisma del 2016 sono passati più di tre anni, ma in questo momento a Norcia i ragazzi delle superiori vanno a scuola in un “collettivo”, il prefabbricato che nel pieno dell’emergenza aveva accolto le brandine di chi era fuori casa. «Posti fisici per aggregare i ragazzi in Val Nerina non ce ne sono», racconta Costanza Carocci, presidente della cooperativa L’incontro, capofila del progetto Terra Invicta, «mentre loro di ritrovarsi fuori dalla scuola hanno disperatamente bisogno. Per questo in Terra Invicta abbiamo previsto azioni itineranti, siamo noi che ci spostiamo».

Nell’Ascolano, in un territorio fatto di piccolissimi comuni anche un po’ sovraccaricati dai tanti progetti di aiuto arrivati dall’esterno, il tema è stato proprio questo, «raccogliere le esigenze partendo dalle piccolissime organizzazioni, che sanno quanto è difficile raggiungere le scuole quando c’è la neve», ammette Carla Capriotti, coordinatrice di Mia! Memoria Identità Ambiente. A Valle Castellana – 39 alunni in tutto, dall’infanzia alle superiori – a marzo 2019 è stata inaugurata una biblioteca scolastica, la prima del paese: uno spazio aperto alla cittadinanza, anche il pomeriggio. Alle falde del Corno Grande invece una scuola elementare in disuso è diventata la sede della neonata orchestra popolare intergenerazionale, che vuole riscoprire strumenti come la zampogna zoppa e l’arte dei suonatori “non a musica”. «In dialetto si chiamano li tamurri», racconta Antonella Ciaccia, responsabile del progetto Radici, «il patrimonio identitario non è solo questione di memoria, ma di educazione. Radici ambisce ad essere il punto di partenza per una consapevolezza diffusa sulle risorse che il territorio può mettere a disposizione delle nuove generazioni e l’avvio di politiche attive locali per l’infanzia e l’adolescenza».

Una miriade di azioni diverse, 2,5 milioni di euro, 140 Comuni suddivisi in sei aree, un’ottantina di associazioni locali coinvolte, una risposta entusiasta da parte della popolazione: l’intervento di Con i Bambini nelle aree colpite dal terremoto del 2016 può essere sintetizzato così. Mancherebbe però la cosa principale: «a metà percorso i numeri delle persone coinvolte siano già doppi rispetto a quelli previsti, ma il vero successo è che il partenariato conta una quarantina di soggetti», sottolinea Silvia Giovannella, referente del progetto Resiliamoci. Per essere presente nel Centro Italia colpito dal terremoto, il fondo nazionale di contrasto alla povertà educativa ha scelto di avviare e accompagnare un processo di potenziamento educativo partecipato, che coinvolgesse tutti gli attori del privato sociale e del volontariato, le scuole, gli enti locali e ogni altra risorsa educativa. Terre in cui – spiega Marco Rossi Doria, presidente dell’Associazione IF-Imparare Fare a cui è stato affidato il compito di seguire il percorso – «la scossa ha amplificato in maniera traumatica una domanda che era già strisciante, legata allo spopolamento e alla distruzione del tessuto sociale: in questo luogo, come cresciamo i nostri figli? Perché rimanere? Con quale speranza? L’identità territoriale è diventata, da subito, un elemento caratterizzante della progettazione».


Qual era l’obiettivo?
Avviare un processo di potenziamento educativo fortemente condiviso, facendo leva sulle esperienze maturate nelle comunità locali. Il mandato che abbiamo ricevuto da Con i Bambini è stato quello di accompagnare in via partecipativa la formazione di partenariati nelle aree terremotate. Era assurdo infatti che aree colpite da sisma si mettessero in concorrenza tra loro gli enti di sviluppo locale. Lo strumento del bando, che prevede che qualcuno vinca e qualcuno perda, non andava bene. Per questo Con i Bambini ha nominato un ente che accompagnasse la formazione dei partenariati, dopo aver mappato il territorio e compreso in base a quali criteri differenziarli. I partenariati non sono nati su meri criteri di geografia politica, ma anche per caratteristiche demografiche, per tipo di governo del territorio, perché tradizionalmente ci sono istituzioni più o meno presenti nella progettazione educativa, non ché in base a questioni fisiche di non secondaria importanza, ossia catene montuose che da sempre dividono un territorio dall’altro e aree che invece hanno una tradizione di cooperazione al di là della valle… Tutti questi elementi fanno le differenze. A IF è stato dato il compito di capire quali fossero dei criteri credibili per individuare alcune macroaree in cui agire e costituire un partenariato per concorde adesione, che si basasse sul principio che “nessuno è escluso”. Ad esempio sui territori – lo sappiamo – ci sono associazioni giovani e associazioni senior, che non si vedono bene. Il corollario importante di questo percorso è l’empowerment delle associazioni locali, l’altra strada sarebbe stato un mentoring delle associazioni più grandi che avrebbero preso in carico il territorio e le piccolo si sarebbero aggregate, nella logica di associazione grandi che “allevano” le piccole.

La scelta quindi è stata di tutt’altro tipo?
Sì, è stata caldeggiata la necessità della concorde adesione di tutti, in particolare delle realtà medio piccole che già operano e vivono anche sul territorio, pur con le loro debolezze e inesperienza. Le comunità educanti che sono state così individuate hanno caratteristiche: primo, capire che ci si doveva mettere in gioco non escludendo nessuno; due, che bisognava fare un upgrade, per progettare dentro le categorie e i parametri dei bandi dell’impresa sociale Con i Bambini, descrivendo esattamente tutte le azioni, i destinatori, distinguendo le diverse età. Su ciascun territorio individuato, la progettazione è nata sedendosi lungamente ai tavoli. Il nostro accompagnamento è stato teso a fare questo.

Come sono state individuate le sei aree territoriali e le rispettive comunità educanti?
Come accennavo, in base alla complessa composizione di tanti criteri. Hanno contato le unità ammnistrative, il fatto che ci fosse ad esempio lo stesso ufficio scolastico. Due, le tradizioni interne di cooperazione educativa, perché una comunità educante non parte da zero, deve avere alle spalle una storia e ci deve essere una consuetudine di lavoro comune. Tre la configurazione del territorio perché le cose concrete pesano. Sono aree in cui si possa credibilmente avere una attivazione dal basso, che questo sia una cosa che possa accadere. Questi dati di omogeneità, secondo un mix complessissimo, è propedeutica alla possibilità di un partenariato che non escluda nessuno e alla costruzione progressiva di una comunità educante. Ricordo che parliamo di 140 comuni nelle sei aree, che significa avere rapporti con 140 amministrazioni comunali. Il primo processo partecipativo è stato sull’essere tutti d’accordo che questa divisione per sei aree fosse ragionevole. Poi siamo passati ad analizzare quali erano nelle diverse realtà i bisogni emergenti, che si sono rivelati essere un complesso intreccio tra problemi dovuti al terremoto e al trauma. Tutto andava verso un’unica domanda di fondo: “Perché rimanere qui? E con che tipo di speranza? Scossa o non scossa, noi in questo luogo, come cresciamo i nostri figli?”.

Loro ci dicevano le priorità educative e qui è iniziata a costruirsi la comunità educante, dal condividere le finalità e le azioni concrete, integrate con quello che già si faceva, tenendo conto dei luoghi fisici possibili, perché ci vuole un posto sicuro che non ti cada addosso e anche quando il posto c’è ed è certificato resta la paura di mandarci i propri figli e di allontanarsi da loro. E poi c’è la questione demografica, che si sapeva già da 20 anni, ma che il terremoto ha fatto esplodere. Voglio dire che le comunità educanti, oltre a discutere dei bisogni e di come e chi doveva fare cosa, hanno dovuto riconoscere un trauma più strisciante e antico che è lo spopolamento e la distruzione del tessuto sociale che ne consegue: tutto questo si è riverberato sulla progettazione, le comunità educanti in fieri hanno preso questo debolezza come uno dei temi trainanti della loro progettazione educativa, hanno capito che i loro beni comuni dovevano essere parte integrante della loro progettazione educativa. In letteratura questo avviene sempre: in campo educativo una della cose fondamentali per tenere insieme le persone sta nella riscoperta della propria appartenenza e identità territoriale, che sia una chiesa o una montagna, c’è questa impronta forte in tutte le progettazioni.

Cosa si può dire, a questo punto dei progetti?
Quattro cose, direi.

  1. La riscoperta da parte dei bambini e dei ragazzi e degli adulti che li accompagnano dei propri luoghi, non però con uno sguardo rivolto al passato ma al futuro. Storia, tradizioni, luoghi, territori come potenzialità di sviluppo. Dentro questo, anche una grande riscoperta delle relazioni intergenerazionali.
  2. La valorizzazione, basata sulle persone che rimangono, sul capitale umano. Questo tema è presente anche nella progettazione rivolta ai bambini piccoli. Sono state create orchestre, musei all’aria aperta, luoghi di incontro e socailità fattiva. Non è “quanto sono belle le montagne” ma “cosa facciamo per il futuro”.
  3. Uno spirito coordinante. Per fare qualunque cosa dobbiamo metterci d’accordo, parlarci, in maniera sistematica e non occasionale, riflettere sulle pratiche anche da posizioni professionali diverse, io mamma, tu maestra, tu artista, tu informatico… La condizione per questo è che la comunità educante abbia luogo in cui riunirsi e al contempo un metodo che coinvolga le istituzioni locali, con procedure condivise.
  4. Il rapporto con la politica intesa in senso proprio, per dare continuità alle buone pratiche. Quali sono i ritrovati educativi che tutti noi, in ciascun partenariato, riteniamo di successo, che non possono finire? Tre partenariati su sei sono già in questa fase, ci sono già riunioni formali con consorzi, i comuni, le casse di risparmio locali, passi verso le regioni… Questo implica un processo di maturazione, perché una comunità di pratica che fa solo la pratica e non ne fa oggetto di interlocuzione politica vera e propria e non sa consolidare i risultati, è sì una comunità educante ma non sufficientemente evoluta per dare continuità alla propria azione.

In generale, quali sono i ritrovati educativi che si sono dimostrati più interessanti? L’obiettivo con cui il fondo è nato era anche questo, sperimentare per poi individuare le esperienze da trasformare in politiche.
Nella mia esperienza ho visto tanti ritrovati meravigliosi e poi sono stato smentito. Ci sono anche condizioni esterne, soprattutto quando un territorio è debole. Devo dire che qui vedo una autentica attivazione, al di là dei numeri: quando fai un’assemblea il sabato mattina in un luogo difficile da raggiungere… chi ha esperienza lo vede quando la partecipazione è vera o fasulla. Il polso che in tanti abbiamo è questo, al di là delle singole azioni. Questo è un primo gradino per lavorare meglio, un retroterra che le comunità in futuro potranno citare.

In copertina, la scuola intergenerazionale di musica e liuteria tradizionale avviata dal progetto Radici


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