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Emanuele Severino, filosofo dell’eternità, maestro di umanità

Nato a Brescia il 26 febbraio del 1929 e a Brescia scomparso il 17 gennaio scorso, Emanuele Severino ripeteva che «siamo re che si credono mendicanti». In questo suo aggredire l'essenza stessa del nichilismo e non solo le sue evidenze banali ci lascia una lezione di umanità senza pari: la dignità di tutti gli uomini e di tutte le cose, da sempre sottratti al nulla va capita, ascoltata, interrogata. E rispettata anche nella sua manifestazione più umile e fragile

di Redazione

Il divenire, la morte, il tempo. Emanuele Severino poteva apparire austero, lontano, persino altezzoso nel suo negare certe nostre evidenze quotidiane. Ma Emanuele Severino non era così. Affabile, cordiale, sempre curioso e sorridente quando si trattava di ascoltare e capire chi aveva di fronte, diventava intransigente solo quando la disputa lo esigeva. L'ascolto curioso era una sua qualità umana, forse poco conosciuta.

Quando la posta gioco si faceva alta, teoreticamente alta le cose cambiavano. Cambiavano non per tono umorale, ma per quel suo richiamarsi proprio alle cose ultime e al loro senso primo. La vita, l'esserci, la morte: le grandi domande, le domande di tutti. «Ma prima di darvi risposte – insegnava – ponetevi fino in fondo la domanda».

Ciò che se ne va scompare per un poco. I morti che se ne vanno scompaiono per un tempo maggiore. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare. Ogni cosa – da quella cucina d’inverno al fuoco che ardeva in quel camino, dai miei attorno al tavolo a quel bambino che ero io, e poi Esterina e tu e tu – può dire: «Ancora un poco e non mi vedrete; e un poco ancora e tornerete a vedermi, perché vado al Padre» (Gv 16,16). Et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (ibid 22): «E nessuno toglierà via da voi la vostra gioia». Al di là della fede cristiana, «andare al Padre» significa che gli eterni del mondo di ognuno appaiono, in ognuno, insieme agli eterni del mondo di ogni altro, perché sopraggiunge in ognuno la terra che porta al tramonto il nostro esser separati. È la terra che salva perché è l’apparire della Gioia, ossia di ciò che da ultimo il nostro Io del destino è in verità

Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia

«Che cosa significa andare fino in fondo? Vi siete mai chiesti che cosa voglia dire, "fino in fondo"?», ci chiese mentre con Vita stavamo preparando un dibatttio, tenutosi poi il 18 maggio del 2018, tra lui e Roger Penrose, il celebre astrofisico, maestro di Stephen Hawking. Che cosa intendesse con quel "fino in fondo" lo mostrò in una sala gremita all'inverosimile di giovani, nell'Auditorium Cariplo di via Romagnosi che, per l'occasione, aveva dovuto aprire le telecamere interne su più piano e stanze per permettere a tutti di ascoltare un dibattito di oltre quattro ore tra i due.

Fino in fondo, disse allora, vuol dire andare alle cose, con umiltà, ma con passo fermo: approssimarsi al confine del vero significa guardare la Verità con occhi che sanno discernere le apparenze. Questa umiltà, in lui, assumeva un tono radicale, spiazzante. C'era infatti in Emanuele Severino una vocazione agonistica del pensiero e al pensiero che, troppo spesso, tendiamo a collocare nel passato – da Socrate a Anselmo -, dimenticandoci che di disputationes e solo di quelle si nutre la filosofia, se non vuole essere un orpello.

Il segno di questa sua umiltà intransigente lo abbiamo imparato proprio quel giorno. Dalle sue parole, certamente Ma anche da quegli 800 giovani, per lo più studenti di matematica, fisica e filosofia, che un sabato pomeriggio, con il sole a picco e oltre 35 gradi, avevano spontaneamente scelto di venire, ascoltare e porre le loro domande. Evidentemente, nella filosofia di Severino qualcosa toccava – e le toccava a fondo – le corde della vita.

Nato a Brescia il 26 febbraio del 1929 – e a Brescia scomparso il 17 gennaio scorso – Emanuele Severino ripeteva che «siamo re che si credono mendicanti». In questo suo mordere, fin dai primi libri, l'essenza stessa del nichilismo e non solo le sue manifestazioni più eclatanti ci lascia un messaggio di dignità senza pari: la dignità di tutti gli uomini e di tutte le cose, da sempre sottratti al nulla va capita, ascoltata, interrogata. E rispettata. E lui lo faceva.

Spiegava il filosofo Severino: «Noi non siamo nulla, non veniamo dal nulla e non torniamo dal nulla. Siamo l’eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio. Il mendicante è il nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose reali sono questo mondo, l’Europa, l’Italia, i rapporti economici, giuridici, sessuali. Mentre il fondo dellluomo consiste nella sua permanenza assoluta. Con la morte noi superiamo il nostro essere mendicanti e ritorniamo re: la morte ci consente di oltrepassare il senso del nulla».


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