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Loot box: viaggio nel mondo delle microtransazioni

Nel mondo dell'azzardo online stanno sempre più prendendo piede le "scatole premio" inserite all'interno dei videogiochi. Le microtransazioni economiche legate alle "scatole" stanno attirando l'attenzione di regolatori e autorità, ma la preoccupazione è anche sul fronte educativo e delle dipendenze. Pubblichiamo la prima puntata della nostra inchiesta

di Fabio Turroni

Scottante e sempre di attualità, la tematica delle “Loot Boxes” sta vivendo colpi di scena degni di una serie televisiva. Nel 2004 esce Maple Story, videogioco sud-coreano dal grande successo commerciale, nonché il primo a far uso di microtransazioni, ovvero l’acquisto di valuta virtuale da spendere all’interno del gioco per l’acquisto di bonus e ricompense.

Si tratta di uno dei tanti giochi “free-to-play”, cioè prodotti che permettono all’utente di usufruire gratuitamente dei contenuti base; l’utilizzo di funzioni avanzate ed esclusive è invece a pagamento.

Nel 2006, Maple Story aveva guadagnato oltre 300 milioni di dollari, per un totale complessivo di 39 milioni di account utente in tutto il mondo: di questi, almeno un milione di giocatori hanno acquistato oggetti nel negozio virtuale. A partire dal 2014, era tra i primi dieci giochi online per entrate complessive. Fino al 2011, il gioco ha incassato 1,8 miliardi di dollari.

Tra il 2013 e il 2017, grazie anche alle sue incarnazioni più recenti, il gioco ha incassato 1,181 miliardi di dollari. Ciò si traduce in un fatturato di almeno 2,998 miliardi di dollari complessivi fino al 2017.

La scelta di monetizzare un prodotto gratuito con contenuti a pagamento non è un’idea criminosa, tuttavia ha portato alla nascita del cosiddetto “pay to win”, una meccanica predatoria che spinge i giocatori verso microtransazioni sempre più invasive, con la promessa di ottenere vittorie, ricompense, fama e guadagni reali.

Nel 2004 parlare di fama e guadagni reali era prematuro e credo che a molti sarebbe parso utopistico, eppure la realtà di oggi ci racconta un’altra storia: c’è chi sceglie di essere blogger o youtuber di area videoludica, chi scrive guide sui giochi cercando di sviscerarli nei minimi dettagli, o chi addirittura arriva a fare dei videogiochi una professione retribuita con dirette streaming fortemente seguite (e remunerate) per l’abilità del giocatore.

La potenza comunicativa dei social media, invece di spingere i giocatori a migliorarsi, dapprima ha portato il pubblico a cercare filmati guida per capire come procedere nel gioco e successivamente a ricercare informazioni sui modi migliori di investire il denaro nei negozi virtuali. Le microtransazioni sono divenute in poco tempo la risposta più semplice alla mancanza di abilità e di tempo per allenarsi.

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Dalle microtransazioni certe alle Loot Boxes il passo è breve: inizialmente l’utente pagava una somma certa per una ricompensa altrettanto certa, scelta in base alle proprie esigenze. Successivamente, spinte dalla compulsività dei giocatori, le aziende sviluppatrici introdussero le casse premio, una vera e propria lotteria a pagamento che promette ricompense addirittura maggiori rispetto alle classiche microtransazioni.

I videogiochi, che pochi anni prima erano una nicchia di mercato, divengono in breve tempo un motore di guadagno senza precedenti, grazie anche a produzioni colossal come GTA o Fortnite, veri e propri fenomeni di consumo. Ubisoft, tra le software house leader del settore, ha ribadito come nel 2017 le spese ricorrenti dei giocatori siano aumentate dell’83%: gli acquisti in gioco di contenuti aggiuntivi hanno fatto incassare all’azienda oltre 175 milioni di dollari nello stesso anno.

Un altro fatto importante da non sottovalutare è che le microtransazioni non sono presenti solamente nei videogiochi classici su PC o console, ma anche (soprattutto) nei giochi per cellulari, spesso scaricabili gratuitamente. Per un certo periodo si è scatenata una guerra ad accaparrarsi le cosiddette “balene”, cioè gli utenti che maggiormente spendono per acquisti in gioco.

Fino al 2017, anno del lancio di Star Wars Battlfront II da parte di Electronic Arts (EA), un gioco che, assieme al suo predecessore, è stato capace di vendere 33 milioni copie. Star Wars è da sempre un universo molto amato, pertanto la prospettiva di invaderlo con microtransazioni parve aprire le porte del paradiso. Ciò che invece EA non si aspettava, era proprio l’opposto, un inferno di critiche e boicottaggi. Il gioco sembrava un casinò online e l’utenza smise immediatamente di giocarlo, cosa che portò ad un conseguente calo delle azioni in borsa per EA e ad un doveroso, quanto necessario, passo indietro.

Grazie alla piattaforma Reddit (con ben 675mila commenti negativi), gli utenti riuscirono a far ritirare tutti i contenuti a pagamento del gioco, che in breve tornò ad essere il successo che doveva essere.

Sempre EA, nel 2019 ha lanciato un altro gioco basato sul mondo di Star Wars, ovvero Jedi Fallen Order, con la promessa (mantenuta) di non inserire microtransazioni: a seguito dell’annuncio, gli utenti hanno operato una sorta di “buy-cottaggio”, ovvero un acquisto di massa per lanciare un messaggio preciso su quale sia la loro volontà.

Certamente EA è una delle compagnie più detestate in ambito videoludico (e non è la sola), ma ha saputo frenare ad un passo dal baratro, grazie anche alla spinta degli utenti che hanno fatto valere le proprie convinzioni.

(1 – Continua)


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