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Coronavirus: pesanti effetti sulla crescita economica cinese e mondiale

Appare semplicistico pensare che la Cina possa registrare quest’anno un tasso di crescita positivo: basterebbe solo la perdita di 3 settimane di lavoro complessive per spazzare via il 6% dal PIL cinese quest’anno. Troppo pessimisti? Se qualcuno pensa che lunedì 10 febbraio la Cina torni al lavoro come se nulla fosse, si illude e non di poco

di Marcello Esposito

Esiste una distanza incolmabile tra la reazione estremamente preoccupata dei governi, degli operatori “reali” alla pandemia del coronavirus e la reazione euforica delle Borse che segnano nuovi massimi storici. Mentre gli economisti “embedded” nel sistema finanziario stimano un effetto minimo del coronavirus sull’economia cinese e bollano come “irrazionale” la paura delle persone comuni, i governi e gli operatori “reali” sembrano muoversi in sintonia con le preoccupazioni dei mercati. Chi ha ragione?

Dal canto mio, già da lunedì 27 gennaio mi sono schierato dalla parte delle persone comuni nel valutare le conseguenze che il coronavirus avrà sull’economia cinese e mondiale. Non si chiudono i confini e i voli aerei, non si mettono in quarantena 60 milioni di persone, non si rimandano di 3 o 4 settimane le riaperture delle scuole in un paese di un miliardo e mezzo di abitante …. per una epidemia di influenza un pò più pericolosa del normale.

All’inizio dell’epidemia, complice anche la decisione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che aveva escluso l’ipotesi di classificarla come pandemia globale, eventi come l’isolamento militare delle città della Cina centrale (60 milioni di abitanti) o la costruzione di due nuovi ospedali in cinque giorni erano apparsi a noi occidentali poco più di una manifestazione di iper-cautela da parte della classe dirigente cinese dopo l’esperienza disastrosa della SARS. Quasi l’espressione della volontà di stupire il mondo con la capacità organizzativa della sua classe dirigente. D’altro canto, il numero dei contagiati e dei morti era ancora estremamente basso, anche se in crescita esponenziale: giovedì 23 gennaio erano pari rispettivamente a 650 contagiati e 24 morti. In due setttimane sono diventati oltre 31.500 contagiati e quasi 640 morti (7 febbraio, h 14:00).

Quello che leggiamo in molti report che provengono dalle case di investimento è un rassicurante confronto tra la mortalità del coronavirus (2-2,5% dei contagiati) rispetto a quello della SARS (10% dei contagiati) o di Ebola (90%). Quello che non viene considerato è che per determinare la pericolosità di un virus quello che conta è un doppio parametro: la “letalità” moltiplicata per la “contagiosità”. Un virus come l’influenza “normale”, nelle sue molteplici varianti, ha una contagiosità molto elevata ma una letalità molto bassa. Da ottobre ad oggi, per fare un esempio, negli USA si stima che circa il 5% della popolazione si sia “influenzato” (18 milioni) , ma la letalità è stata dello 0,07%, quindi 25 volte inferiore a quella del coronavirus.

In realtà, per calcolare l’impatto economico di un virus sulla spesa pubblica, sui consumi privati e sulla produttività bisognerebbe calcolare anche la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere, il costo dei farmaci, la probabilità di riportare conseguenze invalidanti e croniche. Avere 10 milioni di malati che possono curarsi a casa è enormemente diverso rispetto ad avere 100.000 malati che devono invece essere ospedalizzati e posti in isolamento.

La probabilità che il coronavirus abbia le stesse capacità infettive delle influenze “tradizionali” non sono trascurabili. Stando a quello che si legge, si trasmette da uomo a uomo, per via aerea o per contatto. Si trasmette anche durante il periodo di incubazione, che è piuttosto lungo, quando cioè il contagiato è asintomatico. Su alcune tipologie di superficie (vetro, acciaio) sopravvive all’esterno del corpo umano per alcune ore. Sul tasso di letalità effettivo bisognerà verificare nel tempo se rimane sugli attuali livelli oppure se scende. Di certo, siamo su ordini di grandezza totalmente diversi da quelli delle influenze tradizionali. E questo determina un impatto (burden come lo chiamano gli americani) sul sistema sanitario infinitamente superiore.

Alla luce di tutto ciò, forse si inizia a comprendere la “razionalità” di alcune decisioni draconiane prese dal governo cinese e, in questi giorni, da aziende private e governi occidentali per contenere la diffusione del virus. Se l’Italia, paese a vocazione turistica ed unica potenzaoccidentale ad aver firmato l’accordo commerciale “Belt and Road”, chiude i collegamenti da e per la Cina, vuol dire che o il nostro Premier è un pazzo in preda al panico oppure che la situazione è estremamente grave e pericolosa.

Come contenere il contagio e ritornare alla “normalità”? Le strade sono due: quarantena per i contagiati e ricerca di un vaccino per i sani. Il vaccino per ora non c’è e alcuni stimano che nella migliore delle ipotesi potrebbe essere disponibile tra 12 mesi. Rimane la quarantena ed è quella che stanno applicando i governi.

Il problema della quarantena, nelle sue varie forme (isolamento, prolungamento ferie, chiusura centri commerciali, sospensione manifestazioni pubbliche ….) è che ha un costo economico proporzionale all’importanza delle aree e delle comunità interessate. Se un virus letale si diffonde in un’oasi nel mezzo di un deserto, l’impatto sull’economia mondiale è zero. Ma se il virus si diffonde in un paese che contiene 1,4 miliardi di abitanti, la cui economia pesa il 20% del PIL mondiale e che è al centro della supply chain mondiale il costo della quarantena può diventare esorbitante.

Per avere un’idea molto approssimativa, una settimana di ferie forzate (il rientro al lavoro dopo il Capodanno cinese è stato posticipato di 1 settimana) equivale alla perdita del 2% della produzione manifatturiera annua. Visto che la gente non va al mare ma sta chiusa in casa per paura del contagio, è probabile che anche nel settore dei servizi si raggiungano percentuali simili di perdita del PIL.

La perdita di una settimana di lavoro per tutta la Cina, a causa del prolungamento delle ferie per il Capodanno cinese, è un dato già acquisito. Per il futuro, bisogna capire quando terminerà l’isolamento della Provincia di Hubei (60 milioni di abitanti), quando gli edifici pubblici, i centri commerciali e le grandi superfici espositive riapriranno, quando le grandi multinazionali (cinesi e internazionali) si fideranno a riaprire gli stabilimenti, … Per capire una settimana di quarantena equivale ad una perdita di PIL per l’anno in corso pari al 2%. Due settimane equivalgono ad una perdita del 4% e così via.

Si capisce pertanto il motivo per cui ritengo ottimistica la previsione di Morgan Stanley di una impatto del -1% sulla crescita cinese nel 2020 (che si espanderà quindi del 5% invece che del 6%) e per cui ritengo invece totalmente prive di fondamento stime che si fermano al -0,2 o al -0,4%, come quelle che i mercti borsistici stanno implicitamente adottando.

A mio parere, è ottimistico pensare che la Cina possa registrare quest’anno un tasso di crescita positivo: basterebbe solo la perdita di 3 settimane di lavoro complessive per spazzare via il 6% dal PIL cinese quest’anno. Troppo pessimisti? Se qualcuno pensa che lunedì 10 febbraio la Cina torni al lavoro come se nulla fosse, si illude e non di poco.

Inoltre, noi stiamo misurando solo gli effetti “meccanici” delle ferie forzate e della quarantena, senza pensare agli effetti psicologici sui consumatori e sugli imprenditori e senza pensare ai “side-effects” finanziari provocati dallo stop ad un’economia che negli ultimi quarant’anni ha risolto tutti i suoi problemi (crediti deteriorati, investimenti sbagliati, calo demografico …) grazie a tassi di crescita poderosi. Ricordiamo che Hong Kong ha registrato nel terzo trimestre un tasso di crescita del -2.9%, a causa delle proteste.

Bastano questi dati per capire che la situazione è seria, non solo da un punto di vista sanitario ma anche economico. Quest’anno l’economia mondiale a mio parere crescerà ad un tasso molto inferiore a quello stimato da FMI o da OECD. Non è da escludere uno shock sul commercio internazionale paragonabile a quello seguente la crisi della Lehman. L’unica nota positiva è che, trattandosi di un fenomeno “naturale”, una volta esaurita la fase di massima virulenza, si dovrebbe tornare molto velocemente sul sentiero precedente di crescita. Ma … ci sono due “condizioni” che devono essere rispettate affinchè ciò avvenga.

La prima è che la frenata imposta dal coronavirus non faccia scoppiare in Cina problemi finanziari (come quello dei crediti deteriorati) o politici che sono stati tenuti sotto controllo grazie appunto a 30 anni di crescita ininterrotta. Il secondo è che la virulenza si affievolisca rapidamente o che la mortalità si abbassi drasticamente. Più è lunga l’esperienza della quarantena, volontaria o forzata, e più sarà difficile cancellarne il ricordo dalle menti di chi l’ha vissuta. Le aspettative in economia come nella vita sono una variabile fondamentale nell’equazione della crescita e noi italiani ne sappiamo purtroppo qualcosa.


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