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Casa, serve uno shock fiscale

Dopo l'uscita del numero di Vita magazine continua il dibattito sulle politiche della casa in Italia. L'intervento dell'economista e responsabile sviluppo di Nomisma: «Le timide sperimentazioni fiscali sull’edilizia convenzionata o sul canone concordato devono essere allargate e rafforzate nei confronti di tutti gli operatori economici impegnati a riutilizzare il costruito (specie se sfitto) per offrire alloggi con determinate caratteristiche (co-abitative e contestuali)»

di Marco Marcatili

La “casa” è sempre stato oggetto e, a volte, gonfalone di operazioni fiscali decisive sul piano del consenso politico, oltre che uno dei motori più visibili dello sviluppo immobiliare e finanziario del nostro Paese. Paradossalmente, nonostante un elevato stock abitativo accumulato negli ultimi decenni (oltre 30 milioni di unità abitative, 1,7 in media per ogni famiglia proprietaria), oggi il fenomeno maggioritario è la “mancanza di casa” che sembrerebbe non richiamare più l’attenzione dei decisori pubblici e degli spiriti animali del mercato.

Da un lato, tutte le forze politiche e i rappresentanti parlamentari sfoggiano proposte più disparate sull’economia, sulla sicurezza, sull’ambiente, ma non potendo più giocare ricette miracolistiche sulla (mancanza di) casa non esprimono una nuova visione politica e strategica coerente con i fabbisogni abitativi del futuro ed i cambiamenti generazionali in atto. Dall’altro lato, nonostante alcuni tentativi di rafforzare l’offerta di alloggi pubblici o privati (a canone sociale o calmierato), restiamo uno dei Paesi europei più sottodotati e l’unico effetto visibile sul mercato è la reiterazione di slogan (social housing, student housing, senior housing, smart housing, e tutti i derivati del living) neppure rappresentativi di una domanda di abitare che difficilmente si manifesta per “classi” o “ceti sociali”.

Partiamo da qualche evidenza meno nota o discussa nel dibattito. Secondo l’ultima indagine di Nomisma, nel 2019 ben 10,8 milioni di famiglie (41,6%) si auto dichiarano “fuori mercato”, in aumento di oltre 1 milione di famiglie rispetto allo scorso anno. Sono per lo più coppie con figli, nella fascia di età tra 45-54 anni, con vulnerabilità occupazionali (non occupati, senza lavoro stabile, con un solo percettore di reddito, esposti a crisi aziendali, etc), con un reddito medio familiare medio-basso, che manifesterebbero un “bisogno di casa” in senso ampio – per uscire dall’affitto, per un’altra prima casa più spaziosa, per riqualificare e rendere più confortevole l’attuale abitazione, per assecondare nuove esigenze geografiche di vita o di lavoro, etc – ma sono bloccati dalle condizioni economico-finanziarie o, in molti casi, pur non sentendosi “poveri” percepiscono forti rischi da un rilevante investimento familiare. Questo è il principale motivo per cui molte forme di sostegno diretto alla domanda (incentivi fiscali, sussidi, reddito di inclusione e successivamente di cittadinanza, etc) non possono costituire l’antidoto ai rischi di futuro e la soluzione per favorire nuovi investimenti privati. Di fronte agli “esclusi” o ai “vulnerabili” desiderosi di casa, quali sono le possibili azioni pubbliche, private e sociali? Con 10,7 milioni di famiglie che non avvertono esigenze a breve termine e 2,5 milioni di famiglie che esprimono una domanda tradizionale (meno di un quarto soddisfatta dalla compravendita sul mercato), 10,8 milioni di famiglie “fuori mercato” rappresenterebbero una fascia non più minoritaria e non relegabile solo all’assistenza.

Agire sulla (mancanza di) casa non deve neanche diventare una tentazione crescente che alimenta attese di ricette immediate attraverso rischiose soluzioni “low cost, last minute”, più in sintonia con i tempi del consenso politico che con quelli di una visione strategica di sviluppo. Qualsiasi politica deve essere pensata coerentemente con una nuova concezione di casa emergente: non più casa-appartamento figlia della cultura dell’appartarsi, ma co-abitazione capace di coniugare autonomia e condivisione di spazi o servizi comuni (verde, mobilità, bambini, anziani, tecnologie, etc); non più casa-edificio con attenzioni solo alle caratteristiche e all’efficienza dell’involucro, ma infrastruttura sociale in un contesto sicuro, accessibile, vivibile, ad alta qualità urbana. In questo senso qualsiasi soluzione per i “fuori mercato” dovrà essere anche coerente con una nuova idea di abitare.

Almeno nel breve termine, l’unica via praticabile è quella fiscale capace di correggere un settore ormai “distorto” da rendite o spazi di mercato non più disponibili, e convincere l’offerta (operatori e proprietari) a interessarsi di questo target sociale. Le timide sperimentazioni fiscali sull’edilizia convenzionata o sul canone concordato devono essere allargate e rafforzate nei confronti di tutti gli operatori economici impegnati a riutilizzare il costruito (specie se sfitto) per offrire alloggi con determinate caratteristiche (co-abitative e contestuali). Inoltre, anziché continuare a sussidiare ai più benestanti gli interventi di ristrutturazione, una parte delle risorse dei bonus casa potrebbero essere dirottate ad adeguare l’offerta, sia in vendita che in affitto, per la nuova fascia maggioritaria del Paese. Certamente restiamo un Paese anomalo, senza operatori professionali sul mercato residenziale (tutto il mercato dell’affitto è praticamente in mano alle famiglie proprietarie italiane), ma potremmo approfittare dell’affacciarsi sul mercato di nuovi e robusti gestori – Utilities, Istituti religiosi, Fondi pensione, etc – per costruire un interesse comune.

Non è questione di etica o responsabilità civile, uno shock fiscale sull’offerta di nuova casa è l’unico modo oggi per far crescere insieme economia o società.


In foto: il progetot Cohabit, nel quartiere milanese di Lambrate


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