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Alla ricerca di un antidoto nell’era della post-verità

È uscita l’edizione italiana del libro “Post-verità”, il saggio del ricercatore americano Lee McIntyre che si propone come «strumento di battaglia politica» contro uno dei maggiori pericoli per le nostre democrazie

di Anna Toro

Nel 2016, anno dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, l’Oxford Dictionary ha scelto la parola “post-truth” (post-verità) come termine dell’anno. Purtroppo, però, la sempre maggiore consapevolezza di vivere in un mondo in cui “le nostre credenze sono influenzate più dalle emozioni che dalle evidenze” non ha comunque portato alla costruzione di anticorpi, e nell’era della post-verità ci siamo dentro fino al collo ancora oggi, anche nel nostro Paese. Da qui la decisione – quasi una “necessità” – di tradurre in italiano il celebre saggio intitolato “Post-verità”, pubblicato nel 2018 da Lee McIntyre, ricercatore di filosofia della scienza presso la Boston University e docente di etica all’Harvard Extension School. Uscito per la casa editrice Utet e tradotto da Alessandro Lanni, si propone come uno «strumento di battaglia politica e sociale» grazie a tutta una serie di spunti e riflessioni che lo studioso americano suggerisce per analizzare e contrastare uno tra i fenomeni più pericolosi per la tenuta delle democrazie di tutto il mondo.

Secondo McIntyre, infatti, la post-verità nella sua forma più pura non sarebbe altro che una forma di dominazione politica, dove la verità è subordinata all’ideologia: «Non è importante che una persona creda a quello che dice, ma che sia abbastanza potente per dirlo». Ed è inutile portare prove ed evidenze – anche scientifiche – perché la tendenza è di credere a ciò che più si accorda alla propria mentalità, ai propri valori o pregiudizi, a prescindere che siano fondati o no. Purtroppo questi particolari pregiudizi cognitivi sono profondamente radicati in noi e ci riguardano tutti: a partire dal cosiddetto “bias di conferma”, ovvero la nostra tendenza a cercare notizie, opinioni, “prove” a conferma di un’opinione che abbiamo già; o ancora, l’effetto Dunning-Kruger, quella distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti in quel campo. «Una tendenza del tutto naturale, ma anche molto pericolosa. Soprattutto in politica, che ha già di per sé un carico emotivo e “di pancia” difficile da contrastare» spiega Chiara Lalli, saggista e docente di Bioetica e Storia della medicina all'Università La Sapienza di Roma, durante una prima presentazione del libro presso la biblioteca Moby Dick di Roma, in attesa di una prossima visita dell’autore in Italia.

La propaganda politica più astuta ha dovuto solo prendere questi pregiudizi e alimentarli tramite il bombardamento ossessivo di messaggi semplici e accattivanti (spesso vere e proprie fake news). Tra le tecniche utilizzate c’è quella tipica del dibattito televisivo: scegliere gli argomenti più “divisivi”, cercando di polarizzare all’estremo. Un esempio su tutti: il tema del cambiamento climatico, dove a partire dai tweet di Trump che negano il riscaldamento globale perché fuori nevica, si è creata nell’opinione pubblica la convinzione che sul tema la comunità scientifica sia divisa. «Eppure questo non è affatto vero. Il 97-98% è d’accordo sull’esistenza del climate change, semmai ci sono divisioni su alcuni dettagli. – continua Lalli – Il problema è che ormai nel dibattito pubblico c’è la continua necessità di sentire l’altra parte su qualunque argomento, anche quando l’altra parte porta avanti tesi totalmente antiscientifiche o evidentemente false. Si pretende la par condicio anche per la scienza, come in una continua campagna elettorale».

Tutto questo, unito alla disintermediazione e alle “bolle” ideologiche alimentate dai social media, ha portato pian piano all’erosione dell’autorevolezza dei media tradizionali, così come degli intellettuali e persino degli scienziati, visti ormai come “la voce delle élite”. «La tendenza analizzata da McIntyre nel libro è purtroppo globale: l’abbiamo visto con Trump, con la Brexit, e pure nel nostro Paese» commenta Giorgia Serughetti, ricercatrice alla Università degli Studi di Milano-Bicocca, e autrice della prefazione all’edizione italiana del saggio. «E’ un mondo in cui la verità è sempre faziosa e quindi sempre opinione. I confini sono saltati. Ma se tutti i fatti sono opinioni e ogni opinione è verità, a cosa ci rifacciamo?» Prbabilmente alla voce del più forte. Citando Hannah Arendt, Serughetti parla di un mondo diventato “tremolante e vacillante”, in cui viene meno la terra su cui camminiamo. «Questa però non è premessa di libertà ma negazione di qualsiasi possibilità di cambiamento».

Come se ne esce? Nel saggio, McIntyre intravede un barlume di speranza non nella scienza in sé ma nel metodo scientifico, che nel comportamento umano diventa “attitudine scientifica”. La scienza infatti, pur basandosi su dati oggettivi, non è verità assoluta e non è esente da errori, bensì procede per gradi, attraverso l’analisi e spesso la confutazione di teorie precedenti. «Questa non è una debolezza bensì la sua forza» spiega McIntyre, che vede il “vero valore della scienza” proprio nella capacità del ricercatore di mettersi in discussione e di autocorreggersi. Un’attitudine esattamente opposta a quella imperante nell’era della post-verità. Ma l’unica che ci può salvare.

(Foto da Pixabay)


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