Economia & Impresa sociale 

Il caso Airbnb, il lato oscuro (e costoso) della piattaforma delle case vacanze

“Comunità, socialità e fiducia”. Sono queste le parole d’ordine nel marketing di siti di condivisione. Ma siamo sicuri che valgano anche nel caso del gigante di San Francisco? I dati parrebbero dimostrare il contrario: dove c’è Airbnb gli abitanti perdono valore. L'inchiesta sul numero del magazine in distribuzione

di Marco Dotti

C’è un passaggio che colpisce nella vicenda di Airbnb: è la sua capacità di estrarre valore e, a poco a poco, cambiare da dentro parole chiave della socialità in rapporto agli spazi urbani. Reciprocità, contatto, vicinato, housing urbano, dimensione di luogo: questa piattaforma, che in Italia ha un giro d’affari che ha abbondantemente superato i 5 miliardi di euro, concentrati prevalentemente nel Lazio (1 miliardo), Toscana (961 milioni) e in Lombardia (760 milioni) «ha costruito la propria immagine come una comunità inclusiva fondata sulla fiducia». A spiegarlo è Sarah Gainsforth, ricercatrice autrice del recente Airbnb città merce, uscito per DeriveApprodi editore nella collana “Comunità concrete”, curata da Aldo Bonomi.

La mercificazione della casa
Non bastassero le parole, ecco infatti le cose: la piattaforma fondata nel 2017, che per anni ha beneficiato del fatto di essere letta come un’interfaccia neutra, una sorta di facilitatore nel contatto fra home sharers, ha completamente cambiato tanto il mondo della domanda, quanto quello dell’offerta abitativa. Finendo per toccare e, secondo i più critici intaccare, il nervo scoperto dell’abitare, oggi: il legame sociale.

Le nuove possibilità di interazione offerte dalle piattaforme hanno indubbiamente ampliato le transazioni abitative, ma hanno anche allargato a dismisura — spiega ancora Gainsforth — «i “beni” da assoggettare a transazioni economiche: è il campo delle merci a essere modificato, non la fiducia alla base delle transazioni. Sono diventate merci la casa, l’automobile, i beni, le attività e le stesse esperienze umane». Prendiamo Lisbona, ad esempio: è la città europea dove Airbnb ha attecchito più che altrove, ma è anche quella dove il canone è aumentato di cinque volte e la disponibilità di affitti a lungo termine è diminuita del 70% negli ultimi cinque anni. Con conseguenze radicali sulla composizione sociale della città.

I tanti problemi legati al capitalismo delle piattaforme, dalla disintermediazione ai contratti, dallo sfruttamento alle dinamiche di bio sorveglianza e controllo, nel caso di Airbnb finiscono per impattare proprio su quelle dimensioni della comunità, del vicinato e della relazione che, apparentemente, vorrebbero valorizzare. Siamo davanti a un fenomeno sopravvalutato quanto ai suoi impatti o piuttosto, come racconta ancora Gainsforth, a un capitalismo immobiliare e della rendita di nuovo tipo? La questione è aperta, ma la domanda — visti gli impatti — non va elusa.

Aibnb, secondo l’avvocato generale della Corte di giustizia dell’Ue Maciej Szpunar, «non opera nel settore immobiliare», ma nel settore della comunicazione. Illegittimo, dunque, bloccarne le attività, perché come «information society service» e provider di servizi digitali la piattaforma opererebbe nel sistema dell’informazione e, di conseguenza, sarebbe tutelata dal sistema della libera circolazione. Tanto più che, per le sue attività in area Ue, Airbnb ha la propria sede proprio in uno Stato membro, l’Irlanda, dove gode della fiscalità agevolata del 12,4%. Mediamente, per gli albergatori in Italia è del 24%.

Come stiano davvero le cose, guardandole in punta di diritto, è difficile dirlo. Fatto sta che molte città si stanno muovendo con regolamenti restrittivi rispetto alla piattaforma.

Tre, principalmente, i problemi sollevati dalla sottoregolamentazione delle piattaforme abitative: l’overtourism, il favorire il sovraccarico di turisti “mordi e fuggi” in città fragili (è il caso di Venezia), la crescita delle ghoshouse, ossia di case affittabili in piena trasparenza sulle piattaforme, ma sconosciute alle autorità, al fisco e sottratte a ogni politica pubblica sulla casa, e la spinta verso gli short-term rental services in quartieri tradizionalmente medio-residenziali o in ambiti storici tradizionali. Fatti, questi, che stanno rendendo pressoché impossibile trovare alloggi in zone “abitabili” delle grandi città, con una conseguente “periferizzazione” dell’abitare e una progressiva “turistizzazione” dei centri storici. È il caso di Napoli, dove oltre la metà degli abitanti abita in affitto, ma i prezzi sono saliti del 20% in pochi mesi e, su mille abitazioni ce ne sono 20 disponibili sulla piattaforma Airbnb. In zone come i Quartieri Spagnoli i vecchi residenti vengono spinti a lasciare le proprie abitazioni.

Il problema non è nuovo: già nel 2015, la municipalità di San Francisco, dove Airbnb è nata, aveva cercato di misurare l’impatto sociale della piattaforma, partendo da due evidenze: l’incremento degli affitti (una media di quasi 4mila dollari al mese), l’aumento degli sfratti e la contrazione degli affitti a lungo termine stavano creando gentrification, non certo “comunità, socialità e fiducia” — le parole chiave del marketing delle piattaforme.

Chi ci guadagna davvero
Il fatto che, a dispetto delle parole d’ordine dei marketers, non sia tutto “sociale” quello che luccica sulle piattaforme è ben chiaro a David Wachsmuth, urbanista alla McGill University. Wachsmuth ha condotto uno studio molto articolato sull’effetto di Airbnb sul mercato immobiliare di New York…


Per continuare a leggere clicca qui
Nell'immagine di copertina un’abitazione messa in affitto con Airbnb al Vomero, uno dei quartieri più richiesti di Napoli


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA