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L’urgenza di una politica per l’organizzazione della tecnica

Come può la politica influire sulle scelte e fare in modo che gli interessi che la motivano siano ispirati a una maggiore equità sociale e a una democrazia reale dalla base larga e partecipata? Possiamo pensare a una democrazia in cui la politica protegge l’individuo dallo strapotere dei grandi apparati multinazionali e crea le basi per un vero progresso culturale?

di Pietro Piro

Non tutte le innovazioni tecniche rappresentano un progresso

Da diverso tempo sostengo che abbiamo bisogno urgente di una politica per l’organizzazione della tecnica. Avevo trovato nel Programma del Partito Socialdemocratico di Berlino del 1989 indicazioni chiare, che avrebbero potuto guidarci nella riflessione e nell’elaborazione di piani per affrontare le enormi contraddizioni che lo sviluppo tecnologico ci pone innanzi. Per i socialdemocratici tedeschi era chiaro allora che: «la mera somma contabile dei passi avanti finora compiuti non ha più come risultato il futuro» e che: «non tutte le innovazioni tecniche rappresentano un progresso». L’innovazione non è sempre un bene se non trova nella società una applicazione conveniente che non consista unicamente nella crescita del profitto di qualche multinazionale. Il Programma di Berlino rifletteva sull’urgenza di operare delle selezioni rispetto alle innovazioni da introdurre nel corpo sociale e di verificarne i criteri che le ispirano e gli interessi (soprattutto economici).

Come può la politica influire sulle scelte e fare in modo che gli interessi che la motivano siano ispirati a una maggiore equità sociale e a una democrazia reale dalla base larga e partecipata? Possiamo pensare a una democrazia in cui la politica protegge l’individuo dallo strapotere dei grandi apparati multinazionali e crea le basi per un vero progresso culturale? Possiamo lasciare libero il campo alle industrie private permettendo loro l’introduzione nell’ambiente di dispositivi i cui effetti sulla salute non sono stati ancora verificati?

Credo che queste siano domande essenziali che dobbiamo porci perché il futuro che ci attende richiederà un alto livello di cooperazione e condivisione di saperi ed energie. In una società complessa non è possibile pensare allo sviluppo sociale senza il contributo della tecnologia. Allo stesso tempo, i centri d’irradiazione dello sviluppo tecnologico, dovrebbero essere obbligati a dimostrare attraverso prove accessibili e scientificamente replicabili, la reale portata delle innovazioni proposte e le conseguenze a breve, medio e lungo termine, sulla salute dell’uomo e dell’ambiente. Guy Debord scriveva: «la gestione di tutto è diventata un affare direttamente politico, persino l’erba dei prati e la possibilità di bere, persino la possibilità di dormire senza troppi sonniferi o di lavarsi senza soffrire di troppe allergie» (G. Debord, Il pianeta malato, Nottetempo, Roma 2007, p. 57).

Ma se osserviamo con attenzione la nostra politica nazionale, sembra proprio che quando ci sia da decidere sugli elementi essenziali del vivere comune, si ritragga indietro spaventata dalle possibili perdite di consenso di un elettorato sempre più fluido. Questo ritirarsi indietro non è privo di conseguenze. Lo spazio vuoto della decisione politica è occupato prevalentemente dagli interessi privati, dalle logiche militari, dai divoratori di Terra e Paesaggio.

La politica non fa opinione sui temi che impattano realmente sulle vite degli uomini – perché è proprio su questo terreno che è impossibile essere troppo superficiali e impreparati – e preferisce spostare l’attenzione su temi-civetta che polarizzano il consenso con un basso livello di trasformazione radicale dei rapporti di forza.

Debord è stato profetico quando scriveva: «I padroni della società ora sono costretti a parlare d’inquinamento, sia per combatterlo […] sia per dissimularlo: poiché la semplice verità delle “fonti inquinanti” e dei rischi attuali è sufficiente a costituire un immenso fattore di rivolta, un’esigenza materialista degli sfruttati, altrettanto virale quanto lo è stata la lotta dei proletari del XIX secolo per la possibilità di mangiare» (G. Debord, Il pianeta malato, p. 55).

Prevenire? La vera cura

Un ottimo contributo per cominciare a pensare ad una politica per l’organizzazione della tecnica è il volume di Paolo Vineis, Luca Carra, Roberto Cingolani, Prevenire. Manifesto per una tecno politica (Einaudi, Torino 2020). Gli autori sono convinti – ed io con loro – che: «solo un radicale mutamento della gestione e organizzazione della vita pubblica – incluso l’impiego delle tecnologie – può metterci al riparo dalla convergenza di così tante tendenze negative, come l’epidemia di obesità e di diabete, l’uso sempre più frequente di ansiolitici, il degrado ambientale, gli effetti del cambiamento climatico, la sfiducia negli esperti (quale si manifesta per esempio nei movimenti contro i vaccini) e le crescenti disuguaglianze sociali» (p. 3).

Oggigiorno la paura è dappertutto: non se ne uscirà se non confidando nelle nostre forze, nella nostra capacità di distruggere ogni alienazione esistente e ogni immagine del potere che ci è sfuggita di mano

Guy Debord, “Il pianeta malato”

Secondo gli autori – che cercano di sostenere i propri ragionamenti con dati scientifici ormai universalmente condivisi – le tecnologie hanno migliorato enormemente la qualità di vita ma hanno generato tre debiti: quello economico e sociale, quello ambientale e quello cognitivo. Questi debiti creano zavorra che impedisce una navigazione leggera sulla Terra e rendono la vita di molte persone ancora insopportabile. L’incorporazione delle disuguaglianze dimostra che i poveri vivono meno e rischiano di soffrire di cattiva salute e disabilità.

I beni sono concentrati in poche mani e la fuga verso i paradisi fiscali moltiplica le diseguaglianze e le conseguenze sulla vita delle persone. La presenza di sostanze inquinanti prodotte dall’uomo rischia di far collassare il Sistema- Terra innescando processi non lineari. Ma come fare a prevenire fenomeni apparentemente distanti ma che hanno una base comune come il cambiamento climatico e l’emigrazione?

Per gli autori occorre: «la riconversione dei lavoratori rimpiazzati dalle nuove tecnologie, la creazione di nuove infrastrutture e l’educazione dei cittadini all’uso delle nuove tecnologie […] uno sforzo combinato di pubblico e privato, scuola, imprese e mass media, per dare vita a una società consapevole e resiliente» (p. 116). «Serve una nuova tecnologia politica basata sulla prevenzione, capace di guidare lo sviluppo umano entro il perimetro dei «confini planetari». Per questo occorre che la scienza impari ad essere interdisciplinare, e molto più diffusa e partecipata dalla popolazione di quanto non sia attualmente. È necessaria infine una dimensione internazionale della salute, dell’ambiente e dell’economia, che prevalga sulle chiusure localistiche improntata alla paura dell’altro. Un nuovo e pacifico internazionalismo» (p. 118).

Solo una dimensione globale, pacifica e collaborativa, dialogica e concreta, comunitaria e solidaristica permette di stabilire una politica per l’organizzazione della tecnica che possa essere efficace e tutelante degli interessi delle minoranze. Un nuovo e pacifico internazionalismo è lo strumento base per pensare a una vita su questo pianeta incentrata alle logiche della relazione piuttosto che su quelle dello sfruttamento. Questo manifesto ci aiuta a ragionare nella direzione giusta e credo possa rappresentare un buon punto di partenza per il lungo cammino che ci attende.

Preparare oggi il terreno del futuro

L’unica certezza che abbiamo del futuro e che continueremo a trasformare il mondo e ad essere trasformati dalla conoscenza. Tuttavia, non è ancora chiaro se saremo capaci di generare il futuro a partire dalle decisioni politiche o se le decisioni politiche saranno solamente il riflesso di emergenze causate dall’innovazione tecnologica che avanza senza nessun controllo.

Il cardinale Matteo Zuppi ci ha premurosamente ammoniti: «Se pensiamo di conservare solo il nostro presente, fuggiamo anche dalla responsabilità che abbiamo verso il futuro. Prepariamo poco il futuro, mancano i pensieri lunghi e le programmazioni strategiche, non vediamo nemmeno le forze che contribuiscono a costruirlo. È così che non diamo vita al futuro». (M.M. Zuppi – L. Fazzini, Odierai il prossimo tuo: perché abbiamo dimenticato la fraternità: riflessioni sulle paure del tempo presente, Piemme, Milano 2019, p. 46).

Lo sviluppo tecnologico non è una forza mansueta che si sottomette benevola alla nostra volontà. È una potenza inaudita tenuta a freno solo dai propri limiti e che se non governata e indirizzata rischia di dispiegare tutto il suo potenziale distruttivo. Sé non prepariamo il futuro con maggiore accortezza, rischiamo di ritrovarci di fronte a problemi enormi la cui natura è, già adesso, sotto i nostri deboli e annoiati occhi.


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