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Medici e infermieri, che vocazione al bene

Parla uno dei cappellani del Giovanni XXIII di Bergamo, l’ospedale che più di ogni altro sta vivendo l’emergenza del Coronavirus. «Seguiamo con molta discrezione. Ma vediamo quanto sia sentita questa vicinanza. È una situazione in cui possiamo toccare con mano quanto l’uomo possa spingersi nel bene»

di Giuseppe Frangi

Ci sono anche loro in prima linea sul fronte del Giovanni XXIII di Bergamo. Sono i tre frati francescani che con i due fratelli laici compongono la comunità che vive proprio nelle adiacenze dell’ospedale e che si occupa della pastorale sanitaria. Fanno capo alla bellissima chiesa dell'ospedaale costruita su progetto di Aymeric Zublena, Pippo e Ferdinando Traversi e che ospita al suo interno interventi di Andrea Mastrovito, Stefano Arienti e Fernando Frères. Fra’ Piergiacomo è uno di loro. È nativo di Dalmine ed è qui da un anno e mezzo. Parla con molta calma, con la preoccupazione di non esasperare una situazione così tesa e complessa. In una pausa racconta le sue giornate dentro questa grande struttura dove si sta combattendo la durissima battaglia contro il virus.

Com’è cambiata la vostra vita con questa emergenza?
«È cambiata tanto, a partire dal fatto che non possiamo più dire messa davanti al nostro popolo e questa per noi è una grande ferita. All’interno dell’ospedale la nostra è una presenza che vuole essere discreta e oggi i reparti dove sono ricoverate le persone infettate dal virus sono giustamente chiusi per evitare contagi ulteriori. Entriamo quando ci chiamano per dare l’estrema unzione a chi non ce l’ha fatta. E a questo proposito mi lasci sottolineare una cosa: sono colpito dal fatto che con tutta la tensione di queste giornate e la quantità di lavoro da fare sia spesso il personale dell’ospedale a chiedere ai parenti se desiderano la presenza di un sacerdote. Non è una cosa scontata».

Riuscite a incontrare i parenti?
«Non è semplice. Per ragioni che è facile comprendere non possono stare vicini ai malati e quindi è difficile che siano in ospedale. In questo momento offriamo la nostra presenza a chi lavora con i pazienti. Con tutti i limiti che la situazione impone, mi pare di cogliere negli sguardi che incrocio nelle corsie un senso di sollievo nel vederci. Esser qui vuol dire esprimere una vicinanza rispetto al servizio straordinario che tutto il personale dell’ospedale sta rendendo».

A questo proposito se l’aspettava una risposta così generosa, quasi eroica davanti a questa emergenza?
«Non mi sorprende, conosco la qualità umana di chi lavora al Giovanni XXIII, la centralità che vien data al paziente, non a parole ma nelle piccole e grandi scelte quotidiane. Inoltre penso che chi sceglie questa professione lo faccia in virtù di una vocazione di soccorso all’umanità resa fragile dalla malattia. Vocazione vuol dire anche donazione di sé all’altro. Credo che un’esperienza come quella di queste settimane questa dimensione di vocazione venga portata al suo estremo. È una situazione in cui possiamo toccare con mano quanto l’uomo possa spingersi nel bene».

Ci sono degli episodi che l’hanno colpita nell’esperienza di questi giorni?
«Ce ne sono tanti. Mi hanno colpito gli sguardi di chi lavora al 118 e porta i malati qui con le ambulanze: tanti sguardi di persone che avrebbero voluto fare di più. Per quello che riguarda la nostra presenza a volte invece temiamo di essere di intralcio: un giorno entrando in ematologia mi sono premurato di chiedere se non ero di disturbo al lavoro. Mi hanno risposto che la mia, in quanto sacerdote, era invece una presenza necessaria. Necessaria come la loro».

Come se lo spiega?
«Penso che per chi creda la nostra presenza sia un accompagnamento al lavoro svolto ogni istante. Chi non crede invece sente il valore di una vicinanza. In questo momento poi si aggiunge, credo, un altro fattore».

Quale?
«È una complicità di sofferenza spirituale. Non dobbiamo dimenticare che anche la comunità cristiana vive la ferita di non poter assistere alla messa, per obbedire alle disposizioni del governo in funzione anti contagio. È un’esperienza di sofferenza non poter vivere questa comunione sacramentale con il Signore. E non è sofferenza di poco conto. Così per noi sacerdoti è un grande dolore dover dire la messa nella cappellina senza avere il popolo con noi: siamo fatti per stare con il popolo di Dio. È un aspetto che voglio sottolineare, perché il sacrificio che stiamo facendo, come cristiani, è un qualcosa che non è da meno del male fisico. Oggi la nostra chiesa è aperta per chi vuole pregare singolarmente e adorare il Santissimo quando viene esposto. Chi si vuole confessare ci può chiamare. Ma quell’altare senza messa fa piangere il cuore…»


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