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Che cosa accade alla filantropia nelle fasi di recessione?

Due studiosi americani hanno studiato donazioni e attività filantropiche nei periodi di crisi economica e segnalano una novità: molte fondazioni americane stanno lavorando insieme per concentrare gli sforzi, ottimizzare risorse e non ridurre il proprio intervento in una fase di estremo bisogno

di Marco Dotti

Che cosa accade alla filantropia durante le fasi di recessione? Crescono le donazioni e gli aiuti quando più persone vivono in stato di bisogno?

Patrick Rooney, economista dell’Indiana University Lilly Family School of Philanthropy e Jon Bergdoll, statistico particolarmente attento al mondo della filantropia, hanno provato a dare una risposta in un loro articolo pubblicato su The Conversation.

L’analisi di Rooney e Bergdoll si concentra sugli Stati Uniti, Negli ultimi sessantaquattro anni, osservano, il totale delle donazioni è cresciuto a un tasso medio annuo del 3,3%, corretto per l'inflazione. Ma il quadro cambia completamente se si confrontano tra loro le fasi di crescita economica con quelle di recessione.

Negli anni di crescita economica, la media delle donazioni è aumentata del 4,7%. Durante gli anni segnati dalla recessione economica, il tasso medio di rendimento è in realtà diminuito dello 0,5%.

«Durante le recessioni economiche, un numero maggiore di persone è senza lavoro e ha bisogno di una mano. Ma gli individui, insieme ad altre fonti di filantropia, tra cui le fondazioni, in genere producono meno reddito e hanno una minore ricchezza disponibile, e quindi diminuiscono di conseguenza la loro donazione», scrivono Rooney e Bergdoll.

La Grande Recessione del 200i è un esempio paradigmatico: il totale delle donazioni è sceso del 7,2% nel 2008, per poi diminuire di un altro 8% nel 2009.

E le fondazioni? Le fondazioni, che esistono per finanziare attività di beneficenza negli USA sono tenute per legge a versare almeno il 5% del loro patrimonio. Non esiste un limite legale a quanto possono spendere, ma in pratica «cercano di conservare la maggior parte delle loro partecipazioni per garantire che possano continuare ad esistere a lungo termine».

E anche se spendere più del 5% dei loro beni in tempi difficili potrebbe fare la differenza ed è perfettamente legale, storicamente la maggior parte delle Fondazioni statunitensi non si è mai spinta a tanto. Ma fortunatamente, scrivono gli autori, «un gruppo crescente di fondazioni sta rispondendo rapidamente alle numerose esigenze concorrenti che emergono a causa della pandemia. Più di quaranta fondazioni hanno unito le loro forze e stanno contribuendo a finanziare la risposta alle emergenze nelle comunità più colpite».

C’è il caso della Bill e Melinda Gates Foundation, che ha impegnato 125 milioni di dollari per accelerare la ricerca su vaccini e trattamenti, insieme a tutto ciò che serve per distribuire rapidamente qualsiasi prodotto innovativo il più rapidamente possibile.

Allo stesso modo, Chan Zuckerberg Initiative sta collaborando con l'Università della California, San Francisco e Stanford University per quadruplicare la loro capacità di test e diagnosi del nuovo coronavirus. Stanno anche creando un nuovo set di dati intorno al virus ad accesso aperto e leggibile da una macchina.

Attenzione, però: indipendentemente da come le grandi istituzioni filantropiche rispondano alle ripercussioni derivanti dall'arresto dell'economia globale, «è importante tenere presente che, sebbene le fondazioni svolgano un ruolo importante nella società, il loro impatto è intrinsecamente limitato». Soprattutto davanti a problemi disastri naturali e pandemie. Tutte le fondazioni statunitensi, infatti, detenevano quasi 1.000 miliardi di dollari alla fine del 2019, prima dello sconvolgimento finanziario che ha sicuramente ridotto il valore delle loro partecipazioni.

Non c'è un importo che possano elargire nei prossimi anni che possa essere paragonato all’iniziativa statale. Per questo servono nuove sinergie. Pubbliche, private. Comuni.


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