Welfare & Lavoro

Quando usciremo dalla malattia, ci sarà un welfare capace di raccogliere i pezzi?

Il presidente dell'Ordine degli Assistenti sociali dà voce al messaggio dei colleghi bresciani e bergamaschi: «O si comincia oggi a riorganizzare il Welfare di quello che sarà un vero dopoguerra, o si conteranno altre vittime: dell’abbandono, non della malattia. La speranza è che proprio perché abbiamo imparato cosa significhi arrivare impreparati alla guerra delle corsie, si capisca che non possiamo arrivare impreparati anche fuori dagli ospedali»

di Gianmario Gazzi

Solitamente mi dedico ad articoli e a discussioni sui massimi sistemi, piccoli contributi sui testi di ricerche o semplici prefazioni istituzionali. Ho deciso di scrivere, questa volta, perché vorrei raccontare un’altra parte di noi assistenti sociali: l’impotenza, la rabbia e la speranza.

Sono aspetti che lavorando con le persone metti in conto. L’impotenza dovuta alla impossibilità di mutare abitudini o superare limiti, la rabbia per le molte cose tremende che vediamo tutti i giorni, ma anche la speranza di poter contribuire ad un cambiamento o un sollievo.

Oggi questi sentimenti li vorrei urlare a tutti, dando voce a molti assistenti sociali delle province di Brescia e Bergamo che ho sentito in queste orribili ore.

L’impotenza che mi hanno descritto è la peggiore. Quella di vedere le persone morire senza un saluto, quella di dover dire non riusciamo a trovare un posto o semplicemente qualcuno che ti porti a casa dall’ospedale. Persone che guarite non hanno nessuno o se c’è, è in quarantena. Anziani, ma non solo. La rabbia che arriva dalla paura di chi vede ogni giorno qualche collega infermiere, medico o operatore socio sanitaro finire in osservazione, in reparto, qualcuno al cimitero.

In tutto questo però c’è anche la speranza da urlare. Non una speranza inutile o vaga da “vogliamoci bene”, ma quella forte di chi è abituato a guardare il brutto del mondo negli occhi. La speranza che si impari e si agisca in tempo.

Sì, perché i tanti assistenti sociali nelle corsie degli ospedali di Brescia o quelli delle valli bergamasche già lo raccontano. Mi dicono “Presidente dillo che si preparino, facciamo che non sia un dolore inutile”. Mi raccontano di prepararsi a persone che hanno perso tutto ciò che è caro. Giovani adulti, padri e madri, che per tanto tempo non potranno essere come prima. La malattia è dura, durissima.

Dicono di preparare luoghi e servizi capaci di accogliere una domanda che sarà più alta e complicata. Raccontano la necessità di stare vicini alle piccole comunità oramai distrutte che hanno visto morire più di venti persone a settimana su mille o 2mila abitanti.

La nostra speranza è che proprio perché abbiamo imparato cosa significhi arrivare impreparati alla guerra delle corsie, si sia capito che non possiamo arrivare impreparati anche fuori dagli ospedali. Nell’ultima comunicazione notturna del presidente del Consiglio, quella che sta suscitando tante polemiche per il mezzo utilizzato, Conte ha ringraziato molti eroi dei nostri giorni, ma ha scordato gli assistenti sociali, non dimenticati però nel DPCM che individua le attività che non possono chiudere (ai punti 87 Servizi di assistenza sociale residenziale e 88 Assistenza sociale non residenziale). Siamo pochi, malprotetti ma anche in queste ore a fianco degli ultimi: senza tetto, anziani, persone con disabilità di ogni età, famiglie divise, minori in difficoltà, esclusi di ogni genere. Gli ultimi di ieri che rischiano di sprofondare domani. O si comincia oggi a riorganizzare il Welfare di quello che sarà un vero dopoguerra, o si conteranno altre vittime. Dell’abbandono, non della malattia.

Mi scuso ancora per queste parole, ma sto provando da giorni a usare toni istituzionali, fin qui, inutilmente!

*Gianmario Gazzi, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli assistenti sociali

Photo by Sharosh Rajasekher on Unsplash


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