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Se il coronavirus sbarca in Africa

Un'intervista a Dieynaba N’Diaye, epidemiologa e referente ricerca e analisi della ong Azione contro la Fame, «le persone denutrite sono, potenzialmente, più a rischio e anche quelle che vivono in condizioni socioeconomiche più difficili, con un accesso minore alle cure»

di Redazione

Per ora il centro della pandemia di Covid19 è l'Occidente. Ma c'è sempre crescente preoccupazione per il sud del mondo. Cosa accadrebbe se il virus sbarcasse, come è ampiamente prevedibile, anche in continenti come l'Africa? Dieynaba N’Diaye è l'epidemiologa referente per ricerca e analisi della ong Azione contro la Fame e spiega «Il virus è già arrivato. Esiste, effettivamente, il rischio di una forte diffusione anche nel continente nero. È vero che in Africa ci sono già state delle epidemie e sono state controllate ma le pandemie sono molto più rare e più difficili da controllare, perché gli sforzi non sono più concentrati in una singola area colpita».


Dovremmo temere una forte diffusione nei Paesi in via di sviluppo? Quali sono le loro principali sfide nella gestione di questa crisi?
Esiste, effettivamente, il rischio di una forte diffusione, ad esempio in Africa, a causa delle relazioni commerciali esistenti con la Cina e l’Europa. Si tratta di un rischio legato a “casi importati”, anche se il virus sta iniziando a diffondersi anche a livello locale. Secondo l’OMS, i Paesi più colpiti in Africa sono, oggi, Sudafrica, Algeria, Senegal e Burkina Faso, con pochi decessi finora. Occorre, però tenere in considerazione che queste cifre possono essere influenzate dalla capacità degli stessi Paesi di testare i malati e di determinare, post-mortem, i motivi dei decessi. Non sappiamo ancora in che modo il virus si diffonderà in Africa; molti fattori possono influenzarne l'evoluzione: fattori genetici, climatici, sociologici, demografici (ad esempio, la popolazione in Africa è, in genere, molto giovane). Ciò che sappiamo è che alcuni Paesi hanno capacità di risposta limitate (sistemi sanitari meno resistenti, attrezzature mediche non adeguate, scarso accesso all’acqua, ecc.). E che altri fattori possono anche ostacolare la risposta alla crisi (basti pensare all’instabilità politica). Azione contro la Fame, sulla base della letteratura scientifica e secondo vari indicatori ufficiali, ha individuato alcune tra le sue missioni più a rischio: in Africa, Burkina Faso, Nigeria, Senegal; in Asia, Pakistan. Alcune sfide che riguardano i Paesi africani sono simili a quelle che coinvolgono i Paesi occidentali: la capacità di “testare” i malati, la tenuta del sistema sanitario pubblico, lo stato degli ospedali, la consapevolezza delle popolazioni sui virus e sulle azioni di contenimento, la protezione degli operatori sanitari. Alcune sfide, però, sono specifiche per il loro caso come, ad esempio, lo scarso accesso all’acqua, all’igiene e ai servizi igienico-sanitari in alcuni Paesi o regioni. Questioni che aumentano la difficoltà nell’attuazione di misure di contenimento, come lavarsi le mani con il sapone. Un’altra problematica riguarda la difficoltà di porre le persone in quarantena, di isolare quelle colpite o a rischio in contesti, talvolta, di densità urbana molto elevata o in zone in cui i nonni vivono con il resto della famiglia (come accade, spesso, in Italia o in Spagna).

Le persone che soffrono di malnutrizione sono più fragili/più colpite? Potrebbe esserci un legame tra COVID e la fame?
Oggi è troppo presto per affermare che le persone denutrite siano più colpite dal coronavirus, perché non disponiamo di dati sulla fisiopatologia di questa nuova malattia. Tuttavia, possiamo sostenere che le persone denutrite siano, potenzialmente, più a rischio perché il loro sistema immunitario è più fragile tanto che sono, generalmente, più “sensibili” alla contrazione di malattie infettive. Le persone che soffrono la fame sono, inoltre, anche quelle che vivono in condizioni socioeconomiche più difficili, con un accesso minore alle cure e con difficoltà maggiori nell’adottare misure di contenimento, come l’isolamento.

Qual è la nostra preparazione per far fronte al virus nei nostri Paesi di intervento? Quali sono passi che si possono fare?
Abbiamo sviluppato un’unità di crisi all’interno dell'organizzazione; il coordinamento è stato istituito sia a livello gestionale che a livello tecnico. Il monitoraggio scientifico ed epidemiologico viene effettuato regolarmente sul numero di casi rilevati nei nostri Paesi di intervento. Segnaliamo anche le esigenze delle missioni e formuliamo loro raccomandazioni operative per settore di attività. Per esempio, sensibilizziamo il personale e le persone che si trovano all’interno dei nostri centri sanitari sulla prevenzione legata al rischio di diffusione del virus con volantini e poster; forniamo alle strutture le attrezzature necessarie (maschere, gel, fazzoletti); attuiamo circuiti specifici per la gestione dei flussi in entrata e in uscita, prevedendo anche diverse sale d'attesa per malati; gestiamo, in modo appropriato, la raccolta dei rifiuti. Abbiamo, infine, richiesto fondi aggiuntivi ai donatori per finanziare una risposta al COVID-19, in Africa o in Africa occidentale.

Come epidemiologo, qual è la sua analisi legata a COVID-19? Quali sono le sue specificità?
Il coronavirus è una malattia infettiva particolarmente contagiosa. Si differenzia dalla comune influenza a causa della sua elevata trasmissibilità poiché, sopravvivendo a lungo sulle superfici, aumenta le occasioni di contagio. È diverso anche il suo alto tasso di mortalità, che si attesta, a livello generale, dal 2% al 3% della popolazione ma fino all’8% delle persone con più di 70 anni di età. Occorre, infatti, ricordare che tende a risultare più pericolosa nelle persone con diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. Il coronavirus è, inoltre, una nuova malattia: il nostro corpo non è immune da questo virus e, oggi, non esiste un trattamento che abbia formalmente dimostrato la sua efficacia, quindi è impossibile, al momento, proteggere i soggetti più a rischio. Un’ultima peculiarità è stata rilevata dagli ultimi studi condotti in Cina, che mostrano come quasi l’85% delle persone colpite dal virus non sia state rilevate, probabilmente perché non presentavano i sintomi della malattia pur potendo, comunque, continuare a trasmettere il virus. Si tratta solo di stime, che dimostrano quanto ciò che vediamo è solo la punta di un iceberg.

In termini di epidemia, COVID-19 è paragonabile ad altre malattie, come l’Ebola o il colera? Azione contro la Fame, come ONG, ha già affrontato questo tipo di epidemia?
Il termine epidemia descrive la diffusione di una malattia, ma che si materializza in un’area limitata. Una pandemia, al contrario, certificata una diffusione della malattia in tutto il mondo per via del coinvolgimento di diversi Paesi. Le pandemie sono molto più rare delle epidemie e più difficili da controllare, perché gli sforzi non sono più concentrati in una singola area colpita. Le emergenze Ebola o colera, in tal senso, sono epidemie limitate a determinate regioni del mondo. Le persone affette da Ebola presentano sintomi molto gravi, invalidanti e non sono più in grado di vivere la propria vita normalmente: sono ricoverati in ospedale o sono costretti a stare a letto. I casi sono, dunque, più facilmente identificabili e isolati, impedendone la diffusione. Il coronavirus è, invece, diverso perché si manifesta con pochi sintomi o, addirittura, con nessuno nella maggior parte dei casi: le persone non vengono “isolate”, non si recano in ospedale e, soprattutto, continuano a vivere la propria vita e i propri legami sociali. Le persone non sono consapevoli e, quindi, diffondono il virus in modo molto più massiccio. Azione contro la Fame ha maturato una esperienza significativa nella gestione delle epidemie, con particolare riferimento a quelle di Ebola e di colera. Ma ogni malattia è diversa e la risposta a un’epidemia conosciuta può essere altrettanto ben differente da quella che viene promossa per contrastare una pandemia di coronavirus. L’organizzazione ha una vasta esperienza in tema WASH (attività per favorire l’accesso all'acqua e ai servizi igienico-sanitari, azioni tese a promuovere l’igiene in campi e centri sanitari). Ma può vantare anche competenze trasversali che riguardano la condivisione di regole che impongono un cambiamento di comportamento. Essendo una ONG che opera in emergenza, Azione contro la Fame ha anche una rilevante esperienza nella gestione delle crisi, con capacità logistiche e di coordinamento che le assegnano una forte credibilità a livello internazionale piuttosto che una competenza nella lotta alle epidemie in quanto tali (Azione contro la Fame non è una ONG impegnata in ambito medico, come MSF).


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