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L’infermiera Silvia: “Uno strazio, i medici sono costretti a scegliere chi intubare”

La testimonianza di Silvia Giacomelli, infermiera a Senigallia nelle Marche. Dalle mancate carezze ai pazienti, ai tamponi che non vengono effettuati a medici e infermieri fino ai momenti più drammatici: "Abbiamo l'adrenalina in corpo, ma poi crolliamo e piangiamo". Dall’inizio dell’emergenza ha deciso di allontanarsi dalla famiglia per evitare di esporre i suoi cari a possibili rischi, vive ora in un appartamento vicino all’ospedale, di cui paga di tasca propria l’affitto

di Asmae Dachan

“Il lavoro dell’infermiere comporta una vicinanza fisica diretta con il paziente, fatta anche di mani che si stringono, di carezze, pacche sulle spalle. Ora tutto questo non è possibile. Cerchiamo di ridurre al minino i contatti e anche gli sguardi sono filtrati dalle visiere e dagli occhiali di plastica. È straziante per i pazienti, ma lo è anche per noi che li vediamo soffrire e spirare da soli”. È l’ennesimo fine turno ai tempi del Coronavirus e Silvia Giacomelli, infermiera del dipartimento di emergenza a Senigallia (in provincia di Ancona), lasciandosi l’ospedale alle spalle si porta via ricordi, pensieri e immagini che restano indelebili nel suo cuore. “In ventidue anni di carriera ho affrontato con i colleghi molte situazioni emergenziali e drammatiche, ma i giorni che stiamo vivendo non si possono paragonare a nulla”.

L’ospedale stesso è stato completamente cambiato; tutti i reparti, esclusa la maternità, sono ora destinati al covid. Anche il blocco operatorio è stato convertito. I pazienti vengono divisi in base alla gravità; se manifestano sintomi blandi, vengono mandati a fare la quarantena in casa, altrimenti vengono ricoverati. “Siamo la Lombardia del centro Italia, i numeri dei contagi sono altissimi – afferma Giacomelli. Spesso in questi giorni è stata fatta la metafora della guerra, che forse è impropria, ma descrive la situazione che abbiamo intorno, così inedita, irreale; in pochissimo tempo tutto è cambiato”. L’infermiera, che dall’inizio dell’emergenza ha deciso di allontanarsi dalla famiglia per evitare di esporre i suoi cari a possibili rischi, vive ora in un appartamento vicino all’ospedale, di cui paga di tasca propria l’affitto. Anche altri colleghi hanno fatto scelte simili, senza avere alcun sostegno esterno. “Ora veniamo chiamati eroi, la realtà è che stiamo facendo il nostro lavoro come sempre, con lo stesso impegno e coraggio, ma prima nessuno si curava di noi e quando questa emergenza sarà finita, torneremo nel dimenticatoio, come successe con i vigili del fuoco di New York”.

L’infermiera non nasconde la sua amarezza, ma è soprattutto per i suoi pazienti che si dispiace. “C’è una spersonalizzazione totale. Quando entrano lasciano tutta la loro vita, il loro mondo e i loro affetti fuori. Una volta indossato il camice monouso sembrano tutti uguali. Con sé hanno solo il telefonino con il caricabatterie e spesso tra il loro ricovero e il loro decesso non c’è nemmeno l’occasione di fare una telefonata. So che anche questo è un paragone molto forte, ma per me è davvero così: mi sembrano come gli internati di un campo di concentramento, che entrano sulle loro gambe ed escono ormai senza vita, soli, in silenzio, anonimi. È una dimensione disumana”.

Giacomelli, che come infermiera d’urgenza affronta da anni situazioni di crisi, ricorre alle metafore per cercare di rendere l’idea di quello che, afferma, le semplici parole non bastano a descrivere. “Il numero dei decessi è altissimo e ad oggi, sono troppo pochi quelli che guariscono. Questa esposizione continua al dolore e la mancanza di qualsiasi contatto umano richiedono un’elaborazione psicologica molto forte. In reparto abbiamo l’adrenalina in circolo, ma quando finiamo i turni e ci troviamo faccia a faccia con la solitudine a cui le circostanze ci costringono, abbiamo dei crolli, piangiamo. Ripensiamo ai pazienti, allo strazio quando i medici sono costretti a scegliere chi intubare, o quando guardiamo pazienti impauriti, che non sanno più dove sono. Per fortuna ci facciamo forza tra di noi, ci incoraggiamo a vicenda tra colleghi, anche quando dobbiamo comunicare al telefono che una persona è deceduta, senza che i suoi parenti possano vederla. Le camere mortuarie sono piene e questa situazione di sospensione non permette l’elaborazione del lutto perché non si può vedere il proprio caro, né dargli l’addio come si vorrebbe”.

Medici e infermieri devono affrontare in questo periodo anche un altro problema, che forse è il problema centrale, ovvero quello legato alla propria incolumità. L’insufficienza di dispositivi e il fatto di non essere sottoposti a tampone rappresentano fattori di rischio e Giacomelli lo denuncia con forza. “Sin dall’inizio ci siamo imposti, affermando che per prendere servizio in questa situazione dovevamo essere riforniti di tutti i dispositivi necessari. Questi sono arrivati, ma con il contagocce. Abbiamo cercato di ricreare i percorsi sporco-pulito che ci sono solitamente nei reparti di malattie infettive; entriamo da un lato e usciamo dall’altro. Oltre al camice tradizionale indossiamo copriscarpe e calzari, un secondo camice in tessuto spesso, due paia di guanti, e un copricapo che arriva fino al collo. Tutto è rigorosamente monouso tranne gli occhiali, che si possono sterilizzare. Una volta vestiti, non possiamo più bere, mangiare o andare in bagno perché significherebbe dover gettare via tutto e usare nuovi dispositivi, ma questi scarseggiano. Abbiamo poi le indispensabili mascherine, le FFP2 e le FFP3, oltre alle mascherine chirurgiche, che dovrebbero essere cambiate spesso. Per vestirci servono almeno quindici minuti. I telefonini vengono coperti con plastica ermetica. A volte mi sembra di essere finita in una centrale nucleare. L’altra grande questione è quella dei tamponi. Siamo molto esposti e ci interroghiamo sul fatto che a noi, che siamo in contatto continuo con pazienti malati, non vengano fatti da prassi. Ci chiediamo il perché e sicuramente andrà fatta una valutazione a posteriori. Di certo, se i tamponi venissero fatti emergerebbero casi positivi, anche asintomatici, tra i medici e gli infermieri, e bisognerebbe mandare questi ultimi in quarantena. Così, si creerebbe un’emergenza nell’emergenza: chi potrebbe sostituirci? Siamo già sotto organico per via di politiche che da anni fanno tagli alla sanità pubblica. Basti pensare che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il rapporto dovrebbe essere di un infermiere ogni sei pazienti, mentre da noi il rapporto è uno ogni dodici, diciotto e questo è solo uno dei tanti esempi che potrei fare”.

L’infermiera Giacomelli, nipote del celeberrimo fotografo senigalliese, quando tutto sarà finito vorrebbe immortalare queste pagine della sua vita in uno scritto. Nelle ore passate in solitudine, intanto, pensieri e interrogativi si rincorrono. “Il 2020 è l’anno internazionale degli infermieri e delle ostetriche e ce lo immaginavamo come un anno di festa. Abbiamo sempre sperato che le persone manifestassero maggiore considerazione e rispetto verso la nostra professione. Oggi ci si ricorda di noi, e forse per la prima volta ci sono manifestazioni di stima; vogliamo che il nostro lavoro venga riconosciuto per il suo valore di sempre, non solo in questa circostanza straordinaria. Stiamo affrontando una prova fisica e mentale notevole e ne usciremo tutti cambiati. A volte ripenso al fatto che volevano chiudere il nostro reparto… Per questo trovo ipocrita che ora ci chiamino eroi. Serve coerenza. Mai come ora il silenzio dei “piani alti” si fa sentire. Non è questa l’ora delle polemiche, lo so, ma poi bisognerà affrontare seriamente questi problemi”.


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