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Centri diurni chiusi, perché i servizi alternativi non partono?

Oltre due settimane dopo la chiusura dei centri, le persone con disabilità hanno delle alternative? O tutto è ancora sulle spalle delle famiglie? Perché i servizi alternativi, a parte quelli resi a distanza, ancora stentano a partire? Non doveva essere potenziata l'assistenza domiciliare? Ragionamenti attorno all'articolo 48 del "Cura Italia"

di Sara De Carli

L’attività dei centri diurni per persone anziane o con disabilità è sospesa in tutta Italia dal 17 marzo 2020. Alcune regioni avevano già deciso la chiusura prima, con la solita macchia di leopardo, ma teniamo questa come data di riferimento. Il decreto legge #CuraItalia prevede che (art 47) «l’Azienda sanitaria locale può, d’accordo con gli enti gestori dei centri diurni sociosanitari e sanitari, attivare interventi non differibili in favore delle persone con disabilità ad alta necessità di sostegno sanitario, ove la tipologia delle prestazioni e l’organizzazione delle strutture stesse consenta il rispetto delle previste misure di contenimento». Durante la sospensione delle attività sociosanitarie e socioassistenziali nei centri diurni per anziani e per persone con disabilità, prosegue l’articolo 48, le «pubbliche amministrazioni forniscono, avvalendosi del personale disponibile, già impiegato in tali servizi, dipendente da soggetti privati che operano in convenzione, concessione o appalto, prestazioni in forme individuali domiciliari o a distanza o resi nel rispetto delle direttive sanitarie negli stessi luoghi ove si svolgono normalmente i servizi senza ricreare aggregazione». Questi servizi per così dire “alternativi” al Centro diurno vanno disegnati «tramite coprogettazioni con gli enti gestori», con specifici protocolli per garantire la massima tutela degli utenti e dei lavoratori.

Oltre due settimane dopo la chiusura dei centri, le persone con disabilità e le loro famiglie hanno delle alternative? O tutto è ancora sulle loro spalle? Molto è stato attivato con gli strumenti a distanza. La Fondazione Renato Piatti a marchio Anffas di Varese ha ideato “Toc Toc”, un servizio sperimentale di tele-riabilitazione per restare accanto ai 150 bambini con autismo e alle loro famiglie«Questi momenti servono ad aggiustare una routine che si è persa improvvisamente. La frequenza al Centro è un’esperienza non paragonabile, ma "Toc Toc” ci permette di mantenere una certa continuità nei progressi fatti fino ad ora», dice Luisa, la mamma di Davide, un ragazzino con autismo seguito dal Centro La Nuova Brunella di Varese. “L’abilità”, che a Milano segue 200 bambini con disabilità, è in contatto quasi giornaliero con le famiglie: «Non diamo “compiti” da fare a casa, al centro c’è la linea telefonica aperta con i genitori, per la consulenza pedagogica e l’ascolto, per monitorare il benessere di tutta la famiglia», ci ha spiegato Carlo Riva, il direttore. I servizi diurni delle associazioni Anffas Onlus Borgomanero, Anffas Novara e Anffas Valsesia hanno ideato “Non perdiamoci di vista”, inviando attraverso Whatsapp o posta elettronica due volte a settimana dei filmanti, per ricostituire una routine: il martedì sarà dedicato alle letture di favole, storie o brani teatrale e il venerdì ci saranno proposte di attività più dinamiche, come ricette di cucina, lezioni sul tema natura/ambiente, laboratori artistici…

I servizi domiciliari attivati o quelli che coinvolgano – come prevede il decreto – i singoli utenti negli stessi spazi del Centro diurno, invece, sono pochissimi. Si registrano su tale fronte per esempio gli interventi domiciliari e un accesso selettivo presso i locali del centro prontamente messi in campo da Anffas Palermo, assieme alle altre attività, individuali e di gruppo, a distanza in videoconferenza e lo sportello di ascolto online per le famiglie. Purtroppo gli interventi diversi da quelli a distanza sono ancora veramente pochi e quindi non raggiungono tutte quelle situazioni di bisogno che giorno dopo giorno in questa emergenza si stanno acuendo. Quali sono gli ostacoli? Abbiamo provato a capirlo.

Il vuoto per pieno

Durante la sospensione delle attività dei centri, sono garantiti agli enti gestori privati i pagamenti che le pubbliche amministrazioni avevano inserito nel bilancio preventivo, dice il #CuraItalia. Quindi in sostanza gli enti vengono pagati “vuoto per pieno”. Le PA pagheranno agli enti gestori la quota concordata, anche in assenza dell’erogazione del servizio. Nel decreto c’è scritto alla lettera che le PA «sono autorizzate» al pagamento dei gestori privati per il periodo della sospensione, sulla base di quanto iscritto nel bilancio preventivo, «ma il termine utilizzato è solo riconducibile ad un aspetto tecnico, ossia per giustificare la corresponsione degli importi da parte delle Pubbliche Amministrazioni senza farle incorrere in danno erariale, mentre non crea alcuna discrezionalità in capo alla PA», spiega Gianfranco de Robertis, legale di Anffas. «La ratio di tale scelta legislativa risiede nel fatto che comunque (come dice la Relazione Tecnica illustrativa del Cura Italia) bisogna mantenere i livelli occupazionali ed i costi del centro affinché sia poi messo in grado, appena finita l’emergenza, di riprendere il suo servizio di pubblica utilità, oltre al fatto che in ogni caso durante tale periodo di sospensione l’ente ha dei costi necessari ed aggiuntivi, primo fra tutti la sanificazione dei locali». Qualche PA invece ci sta provando a dire che essere autorizzati a pagare non significa essere tenuti a farlo…

L’attivazione di prestazioni in via alternativa

Una conversione del servizio, con l’attivazione di prestazioni in via alternativa, richiede il passaggio della coprogettazione fra la PA, Azienda Sanitaria o Ente Locale, e l’ente gestore. «Non sempre la risposta alle nostre sollecitazioni è immediata e comunque si è ancora poco avvezzi ad utilizzare questo sistema, al posto di procedure ordinarie di affidamento di servizi, meno idonee ad assicurare flessibilizzazione e personalizzazione degli interventi, nonostante sia uno strumento già previsto dal Codice del Terzo Settore. Al tempo stesso, oggi ancora in molte Regioni non sono andate a regime le unità speciali atte a garantire una catena di comando volta a garantire poi sui territori continuità assistenziale per le persone con fragilità. D’altra parte un po’ le famiglie non si sono ancora attivate per chiedere le prestazioni alternative, non vedendo ancora reali condizioni di agibilità, in assenza di una garanzia della Pubblica Amministrazione di dispostivi individuali di protezione» dice de Robertis.

E qui i problemi aumentano. Le Pubbliche amministrazioni come pagheranno quelle prestazioni? Una quota terrà in considerazione quanto effettivamente erogato in forma diversa più, poiché ovviamente le prestazioni erogate in via alternativa non permetteranno mai di raggiungere la remuneratività dei Centri diurni sospesi, una quota per colmare la differenza rispetto all’iniziale previsione del servizio ordinario, al netto di eventuali minori entrate per il servizio alternativo (tipicamente, al “100” si sottrarrà la quota di compartecipazione normalmente versata dalle famiglie per il servizio oggi sospeso). «Qui c’è una contraddizione al momento, perché non è prevista nella norma una quota aggiuntiva per chi fa prestazioni alternative, che anzi così ci rimette. Infatti, chi non attiva prestazioni alternative sicuramente prende "100", come col servizio aperto, mentre chi attiva prestazioni alternative rischia di vedersi decurtata da "100" l’eventuale compartecipazione al costo, se oggi non più dovuta – coi servizi alternativi – dalla famiglia», chiosa de Robertis.

La determina di Milano

Il Comune di Milano ha approvato da pochi giorni una determina che affronta il nodo dell’articolo 47-48, per la rimodulazione del sistema dei servizi sociali afferenti le attività diurne socioassistenziali e/o sociosanitarie per persone con disabilità (Centri Diurni Disabili, Centri Socio Educativi, Servizi di Formazione all’Autonomia, Centri di Aggregazione Disabili) e autorizza le conseguenti modifiche alle convenzioni vigenti. È un primo modello che arriva a riconoscere all’ente gestore il 100% dell’allocato. In sostanza le prestazioni riconvertite saranno retribuite agli Enti Gestori con quota parte pari al 75%, dell’importo dovuto per l’erogazione del servizio prima dell’emergenza coronavirus; un ulteriore 25% dell’importo dovuto per l’erogazione del servizio prima del Coronavirus verrà riconosciuto per l’effettivo mantenimento in efficienza delle strutture attualmente interdette (presa d’atto dei costi fissi). L’ultima quota parte entrerebbe dal fatto che una quota delle prestazioni “alternative” dovrà essere svolto e rendicontato su ulteriori servizi di emergenza, individuati come prioritari dall’amministrazione: parte dell’organico dell’ente quindi sarà impegnato in altri servizi per l’emergenza, individuati dal Comune, per esempio nei servizi di comunità residenziale per categorie fragili e servizi di supporto a MilanoAiuta, come la custodia sociale. Basti pensare che nelle comunità residenziali, che prima si appoggiavano anche ai Centri diurni, ora si deve gestire tutto internamente H24, con la conseguente necessità di personale aggiuntivo.

Photo by Markus Spiske on Unsplash


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